GATTI, VICOLI E MIRACOLI

GIAJIN ADAMS

IL CHIODO

IL CONTE ROSSO

LA STRADA

IL RAGGIO VERDE

 

  Il Raggio Verde

Raggio verde. Raggio luminoso verde che si vede raramente, al tramonto, dovuto alla dispersione atmosferica. (Dal “Devoto – Oli”).

Amalia mi svegliò con un tocco leggerissimo della mano. Il sonno svanì di colpo. Mi sorrise con dolcezza. Poi, con voce tremante, sussurrò: “Dobbiamo andare”.
Mi vestii in fretta, senza parlare. I miei battiti erano accelerati. Amalia fu pronta prima di me. La ricordo sull’uscio, con in mano la piccola valigia, i capelli corti cotonati, come allora andava di moda.
La mia nuova Seicento volò sulla stretta strada di costiera. Non ci dicemmo una parola. Eravamo emozionati. Un paio di volte i nostri sguardi s’incrociarono in un timido sorriso. Ci amavamo molto, allora.
La clinica era nuovissima. Amalia scese dall’auto con attenzione, come chi porta un carico prezioso in una scatola rotta. Il portiere ci assegnò la stanza. Pochi minuti dopo ci raggiunse l’ostetrica di guardia. Tenne per qualche secondo la mano sul ventre di Amalia, poi sentenziò:
“Ci vuole tempo. Spogliatevi, signò, e cercate di riposare un poco”.
“Quanto tempo?” – chiese Amalia preoccupata. Aveva sempre fretta, lei.
“Almeno un paio d’ore. Comunque mo’ viene il dottore a vedervi”. Uscì.
Rimanemmo soli. Amalia aprì con calma la valigia e cominciò a riporre nell’armadio le sue cose. Con ordine, come al solito. Un cassetto per pannolini triangolini e mutandine di gomma. Un altro per il corredino azzurro. Un altro ancora per quello rosa. L’ultimo per la sua biancheria. In valigia lasciò i due fiocchi. Sul letto preparò la sua camicia da notte più bella. Con naturalezza cominciò a spogliarsi, riponendo con cura gli abiti sulle grucce. Era bella Amalia, anche col pancione. Quando fu pronta si voltò a sorridermi. Poi si sdraiò sul letto e prese dal comodino il giornale di enigmistica.
La lasciai assorta, con la matita appoggiata alle labbra, quando uscii in corridoio a fumare la prima delle diciotto sigarette di quella notte.
Il dottore arrivò dopo quasi mezz’ora. La visita confermò i tempi previsti dall’ostetrica. Erano le tre e dieci.
Amalia si assopì ed io raggiunsi la sala d’attesa per fumare.
Nella penombra mi misi a rimuginare sugli eventi che mi avevano portato in una clinica, a quell’ora, in procinto di avere un figlio da una donna che solo quattro anni prima neppure conoscevo. Era stato il mio grande amore, Amalia. Una grande e travolgente passione. Certo eravamo cambiati dai primi tempi, spensierati e felici. L’unione ci aveva fatto bene. Amalia aveva finalmente smesso di fumare. Chi la conosceva bene sosteneva che aveva trovato i suoi equilibri. Io mi ero rimesso a studiare, superando tutti gli esami  e giungendo in pochi anni al comando della più moderna petroliera di una grande compagnia americana.
Amalia era una padrona di casa perfetta. Si dedicava con impegno al lavoro d’insegnante, senza mai trascurare i suoi numerosi hobbies.
Io stavo a casa per pochi mesi l’anno. La vita di mare, però, non mi pesava: ero troppo giovane per soffrire la solitudine.
Meccanismi perfetti regolavano la nostra vita. Tutto si svolgeva senza scosse in un’evoluzione lenta e continua. Neppure la gravidanza ci aveva provocato forti emozioni. L’avevamo programmata con cura.
Solo quella sera, forse per l’insolito risveglio, forse perché per la prima volta avevamo realizzato l’enorme cambiamento che stava intervenendo nella nostra vita, ci eravamo emozionati.
Desiderai un amico con cui parlare, mettere a fuoco i pensieri, confidarmi. Quella veglia non aveva nulla in comune con le altre della mia vita: con le mille guardie in coperta, in compagnia delle stelle; con quella, terribile, della morte di mio padre.
C’era un ansia sottile, insinuante, che mi precipitava in un’altalena di pensieri. La sensazione che al programmato ed al programmabile subentrasse, di colpo, l’imponderabile. Sarebbe stato maschio o femmina, bello o brutto, biondo o bruno? Sano?
I nomi li avevo scelti io: Alberto, come mio padre, se fosse nato un maschio; Antares, come la stella che tante volte mi aveva guidato, se fosse stata femmina.
Sinceramente desideravo un maschio. Eppure mi piaceva l’idea avere una figlia con un nome così bello e musicale, oltre che assolutamente inconsueto. Più volte mi sorpresi ad immaginare il suo futuro, in quella lunga notte di attesa. Mai però riuscii a figurarmi la sua fisionomia di bambino, il suo aspetto.
Dopo la seconda visita Amalia cominciò ad avere doglie ogni cinque minuti. Le sopportava con gran dignità, controllandone con attenzione frequenza e durata. Alle quattro e mezza fu portata in sala parto.
Ricordo la stretta della sua piccola mano. I suoi occhi scuri e profondi, un po’ smarriti. Il ricamo della sua camicia da notte. Rimasi di nuovo solo, nella saletta d’attesa.
Accesi la dodicesima sigaretta. Questa volta nemmeno il fumo mi restituì la capacità di pensare. Avevo la mente completamente vuota. Lessi decine di volte la grossa scritta sulla porta a vetri. Poi cominciai a camminare per i corridoi dedicando una paranoica attenzione ai fiocchi che ornavano le porte delle stanze.
Provai a concentrare la mia attenzione sui rumori. Almeno significava fare qualcosa. Mi misi, così, ad origliare alla porta della sala parto. Sentivo le voci. Interpretavo i toni. Non capivo le parole.
Con sempre maggiore frequenza udivo un rantolo, un urlo represso, una specie di muggito soffocato: Amalia. Poi una voce d’uomo tranquilla: il dottore. Una risata troppo forte: l’ostetrica. Muggito. Silenzio. Lamento. Silenzio. Rantolo. Silenzio. Muggito, forte. Pianto di bimbo. Mio figlio. Mormorio di uomo. Bisbiglio di donna. Voce di donna. Silenzio. Silenzio. Ancora silenzio.
Passi di donna. Vicini. Ombra di donna alla porta. Rumore di porta dischiusa. Voce di donna.
“Prendete la biancheria rosa, comanda’, dal secondo cassetto dell’armadio!”.
Parlava a me. Mi avviai. Rosa: Antares. Tutto doveva essere andato bene. Non mi aveva detto nulla, né io avevo chiesto. Accelerai i miei movimenti e presi i vestitini. Bussai alla porta della sala parto. La mano dell’ostetrica si sporse dallo spiraglio a prendere l’involto.
Mi feci coraggio: “Tutto bene …vero?” – chiesi calmo.
“Dopo… dopo.” – fu la risposta.
Che significava? “Che significa dopo?” – chiesi alla porta chiusa.
Sedetti preoccupato ed accesi la diciottesima sigaretta. La stavo spegnendo quando l’ostetrica uscì con in braccio un batuffolo rosa.
Sollevato mi alzai di scatto avvicinandomi alla bambina. I suoi occhi, inequivocabilmente rotondi ed a mandorla, mi sembrarono sorridere.
Le gambe mi vacillarono. Cercai di osservare meglio. Le piccole orecchie, le mani, le labbra spesse. Poi di nuovo quegli occhi. Dovetti sedere. Mi mancò il respiro.
L’ostetrica attese paziente. Poi: “E’ una forma lieve. La signora sta bene.” – disse abbassando lo sguardo. “Come la chiamerete?”.
Improvvisamente una forza formidabile mi sollevò, m’inebriò di una gioia nuova e mi portò, a braccia tese, verso la bambina.
“Aurora…” – rispose la mia voce. Poi, con in braccio quel fagottino profumato di borotalco, soffocai in un singhiozzo: “ Aurora”.
Sono passati trentacinque anni da quella notte. Amalia è mancata cinque anni fa; ma ci aveva già lasciato, quando Aurora ne aveva sette, per cercare, con un collega più giovane, un rimedio alla sua disperazione.
Aurora lavora come centralinista al Municipio. Un ictus ha molto limitato la mia autonomia.
Il tramonto della mia vita è meraviglioso e tristissimo, come tutti i tramonti. Aurora si prende cura di me.
E’ il mio raggio verde.

 

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