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Gatti
Vicoli e Miracoli
Attraversai
la piazza allegramente. Uno scroscio di risa proveniente
da un capannello di “tiratardi“ alle mie spalle mi indusse
a voltarmi. La giacca del mio abito blu, tenuta per due
dita sulla spalla sinistra, mi sbatteva ritmicamente sulla
schiena, assecondando l’ andatura. Il fruscio lontano di
una scopa di fascine mi guidò nel decumano.
Sbadigliai.
I miei passi rimbombavano sul basolato nel silenzio della
notte. Se non avessi temuto una denuncia per schiamazzi
o una secchiata d’acqua, mi sarei messo a fischiettare.
Ero appena uscito dal letto di madame Pascale Monique La
Roche, la più bella accompagnatrice turistica che avessi
conosciuto nella mia pur breve esperienza di segretario
d’albergo. Sebbene me ne fossi andato malvolentieri, e solo
per evitare a me ed a lei il rischio di dover soddisfare
la curiosità do qualche suo cliente o qualche mio collega,
la passeggiata notturna verso casa mi riusciva gradevole.
Non era solo la gioia per aver ottenuto il compimento dei
miei desideri, né l’ orgoglio del maschio soddisfatto: era
qualcosa di più profondo.
Pascale non era stata una conquista facile. Forse non era
stata nemmeno una conquista. Due volte al mese il suo gruppo
si fermava per cinque notti nell’ albergo in cui lavoravo.
Ricordavo perfettamente l’impressione di simpatia che mi
aveva fatto al primo incontro, con i suoi occhi nocciola
ed il suo tailleurino blu. E ricordavo le presentazioni:
“Vittorio”, avevo sorriso trapanandole gli occhi e stringendole
vigorosamente la mano.
“Pascale…” aveva risposto allegra ”Pascale Monique…..”.
Poi, come fulminata da un ricordo improvviso, “…Pasqualina!”
aveva concluso con un italiano stentato.
Per
due mesi le avevo fatto una corte serratissima ed inutile.
Non mi aveva mai concesso alcuna illusione. Continuavo ad
invitarla senza altro scopo che il piacere della sua compagnia.
Le parlavo
in inglese, giacchè il mio francese era piuttosto elementare.
La pregavo però continuamente di rispondermi in francese,
perché trovavo il suono di quella lingua in perfetta armonia
con la sua persona. Il poco tempo che trascorrevo con lei
volava.
Quella sera inaspettatamente ed inspiegabilmente- per me
almeno, ma credo anche per Pascale- la serata era finita
in maniera diversa dal solito. Non mi chiedevo il perché,
non me ne importava. Pensavo solo che se io non avessi avuto
vent’anni e se Pascale non fosse stata sposata, me ne sarei
certamente innamorato.
Incrociai lo spazzino che armeggiava con la sua scopa. Portai
alla fronte due dita in segno di saluto. Senza parlare mi
rispose sollevando la mano destra.
Erano le quattro. Alle otto e mezza avrei dovuto essere
al lavoro. Pregustavo quelle poche e necessarie ore di sonno.
Attraversai lo slargo ed infilai il vicolo di casa. Vicolo.
Un tempo era stato il cardine maggiore della città. Sulla
targa di marmo bianco campeggiava la scritta “Via Arcivescovado”.
Quelle pietre di basalto, che ora restituivano il
rumore dei miei passi, avevano secoli di storia da raccontare.
Arrivai davanti al portone e cominciai a cercare le chiavi.
Abitavo, da solo, nella vecchia casa di mia
nonna . Veniva utilizzata dai miei solo nel mese di agosto,
per la villeggiatura; quando il lavoro di mio padre lo consentiva
e non avevano scelto mete più alla moda o più esotiche.
Avevo guastato i programmi di famiglia. Dopo il liceo,
che per la verità avevo condotto a termine senza difficoltà
e con piacere, contro la volontà di tutti, avevo accettato
quel lavoro. La paga non era granchè, ma grazie alla casa
della nonna, non avevo spese di alloggio. La possibilità
di usare quell’abitazione l’avevo ottenuta in cambio di
una poco convinta iscrizione alla facoltà di giurisprudenza.
Me la godevo molto. Mi piaceva il lavoro, che ogni giorno
mi riservava una sorpresa. Mi piaceva il paese, con i suoi
ritmi tranquilli. Ma soprattutto amavo quella casa.
Era un vecchio palazzo nobiliare, non saprei dire di quale
epoca. Credo che il primo nucleo risalisse al Cinquecento.
Era appartenuto al mio bisnonno. Dalle varie vendite e successioni
si era salvato solo il grosso appartamento al piano nobile
e qualche locale terraneo.
Infilai la chiave nella toppa e sentii cigolare i vecchi
cardini. Richiusi il portone alle mie spalle.
Il cortile interno, nella parte coperta, sotto all’ala principale
dello stabile, aveva un soffitto a botte sul quale era rimasta
qualche traccia degli affreschi originari, insufficiente,
peraltro, per comprenderne il tema. Sulla destra si apriva
lo scalone di pietra basaltica, che per due piani saliva
con un giro a trecentosessanta gradi.
Per accedere a quelli che un tempo dovevano essere stati
gli appartamenti della servitù si passava invece per una
enorme terrazza al secondo piano, sotto la quale vi era
un enorme magazzino coperto. Al terzo piano, probabilmente
costruito in epoca successiva, si accedeva per una scala
dritta di pietra.
Il cortiletto scoperto versava in condizioni di totale abbandono.
La parete di fronte al portone, un tempo adorna di marmi
policromi, era ricoperta di un incolore intonaco giallastro.
Al centro l’antico stemma nobiliare, nel quale si intravedeva
un gatto, una spada ed una corona a cinque punte, era annerito
dal tempo.
La fontana, posta in corrispondenza dello stemma, e la vasca
che doveva a suo tempo avere ospitato pesci e ninfee, erano
il pregiato ornamento delle immondizie più varie.
Come per una nemesi felina, anticipata dallo stemma, gli
unici abitatori di quella parte del cortile erano i gatti
randagi, che di giorno vi cacciavano le lucertole, di notte
vi riunivano la loro orchestra.
Mentre
percorrevo il cortile interno, il solito gatto nero con
la stella bianca sul petto, mi venne incontro strofinandosi
sui miei poveri pantaloni. Era un rituale che si ripeteva
tutte le sere. Chissà perché di giorno ostentavamo reciproca
indifferenza e di notte ci manifestavamo tutta la nostra
simpatia. Gli grattai la testa e lo lasciai strofinare più
volte. Ascoltai volentieri le sue fusa. Poi, mentre si stiracchiava,
mi rialzai ed affrontai i primi gradini della scala. Il
movimento liberò il dolce profumo di Pascale, rimasto
sui miei abiti.
“Bonsoir…” sospirai.
“Bonsoir!” sentii sussurrare alla mie spalle.
Mi voltai di scatto e gettai intorno un occhiata esplorativa.
Niente. Ridiscesi i pochi gradini e feci un giro nel cortile.
Nessuno. Conclusi che dovevo aver sognato o, forse, sentito
un’eco della volta a botte dell’androne.
Era spiegabile, chiaro. Erano le quattro e un quarto di
notte, potevo andare a dormire. E invece mi venne da ripetere,
guardandomi intorno con attenzione:
“Bonsoir!”
“Bonsoir!” mi rispose inequivocabilmente, con forte accento
francese, il gatto.
“Bonsoir…”biascicai, sconfortato, abbassando la voce.
“Bonsoir!” ripetè chiaro e con tono quasi seccato il gatto.
Frastornato mi sedetti su un gradino: non mi sorrideva l’idea
di trascorrere il resto dei miei giorni in un ospedale psichiatrico.
Pensai di sognare. Potevo far finta di nulla e andare a
letto.
Decisi di stare al gioco. “Chi sei?” chiesi con tono sgarbato.
“Duca Alphonse Marie de Beau Lieu d’ Anjou, monsieur” rispose
con tono pacato.
“Sei solo un gatto parlante, ed io uno scemo che ti ascolta”
sbottai nervoso.
“Sotto il profilo formale, monsieur, la vostra disamina
è ineccepibile”, disse calmissimo, “ma questo non cambia
la sostanza dei fatti”.
“Quali fatti?”. Lo stupore lasciava lentamente posto
alla curiosità.
“Questi!”, rispose. E, in pochi secondi, mi ritrovai nel
bel mezzo di un trucco cinematografico: il gatto era sempre
ai miei piedi, potevo vederlo e toccarlo. Ma dal suo corpo
si allungava una specie di ombra, un fantasma, una figura
stranissima. I suoi vestiti mi ricordavano quelli di un
Don Rodrigo a colloquio con il Conte Zio in
una vecchia edizione di famiglia dei “Promessi Sposi” .
Aveva tanto di spada e cappello piumato.
Ero certo che di lì a un istante si sarebbe scappellato
salutandomi nobilmente. Non lo fece. Mi fissò invece con
un aria di superiorità. Ero ormai certo che stavo sognando,
e questo aveva attenuato il mio sconforto ed allentato la
mia tensione.
“Conte Vittorio Bonelli della Croce” bluffai.
Funzionò. L’aria di superiorità lasciò il posto ad un sorrisetto
complice ed intrigante.
“Non posso svelarne i motivi, ma il mio destino di trapassato
non è stato uguale a quello degli altri, cher ami…” attaccò,”….sono
diversi secoli che il mio spirito vaga …Avevo bisogno di
parlare con qualcuno….”.
“Caro
Duca,” risposi affabile “mi dispiace di deludervi, ma i
tempi sono cambiati. Ora anche noi abbiamo degli impegni
– diciamo – poco nobili. E’ tardi, e domani dovrò alzarmi
presto. Non credo di poter essere di grande compagnia. E’
stato un piacere”. Con un cenno di saluto mi riavviai per
la scala.
“Il
mio avo, Jean Marie de Beau Lieu d’ Anjou, era il gatto
dello stemma” continuò imperterrito. Lo chiamavano Le Chat
per la sua astuzia e la sua agilità politica. Seguì fin
quaggiù i conquistatori angioini. Ebbe il suo feudo ed i
suoi discendenti seppero rimanere a galla anche con gli
Aragonesi e quelli che seguirono. Questo palazzo era la
residenza estiva della nostra famiglia….Conte…Conte…”chiamò.
Mi voltai malvolentieri. La stanchezza prevaleva sulla curiosità.
“Dica, duca” risi.
“Mi fareste dare un occhiata agli appartamenti ?” Chiese
esitante.
L’educazione prevalse sulla stanchezza. “Credo ne sarete
deluso” dissi, “ma in fondo, perché no?” . “D’altra parte”,
pensai “se è un sogno, perché mi preoccupo di andare a dormire?”
Mi seguì fino in casa. Mi parve un po’ emozionato quando
entrò. Si guardava intorno incuriosito, in particolare dagli
elettrodomestici.
Passammo qualche ora a chiacchierare. Mi diede alcune nozioni
di storia locale. Mi raccontò della sua famiglia e per fortuna
non mi chiese della mia: potevo vantare un padre avvocato
ed un nonno capitano della marina militare; tutto il resto
avrei dovuto inventarlo, se non volevo svelare il bluff
del mio titolo nobiliare.
Mi spiegò in dettaglio l’architettura del palazzo distinguendo
le epoche di costruzione. Riempì le stanze di personaggi
antichi e meravigliosi dei quali mi è rimasto un ricordo
bellissimo ma impreciso. Mi raccontò della città ai suoi
tempi e degli intrighi che abbreviavano la vita a tanti
giovani.
Ad un tratto mi resi conto che albeggiava. Mi scusai col
mio ospite, che ormai mi aveva soggiogato con le sue storie,
e gli proposi un caffè.
Accettò e gli chiesi di tenermi compagnia in cucina, mentre
lo preparavo. Bofonchiai che il maggiordomo era in libertà.
Mi sedetti di fronte a lui aspettando che la moka facesse
il suo dovere.
Le mie narici percepirono il profumo meraviglioso della
scura bevanda. Socchiusi lentamente gli occhi, quasi per
consentire all’olfatto di irrorare gli altri sensi con quella
percezione tonificante.
Quando li riaprii ondeggiava pericolosamente sulla mia faccia
una tazzina profumata e fumante sostenuta dalla mano rugosa
di Rachelina.
Rachelina era una specie di angelo sdentato che, facilitato
dal fatto di abitare nella porta accanto, aveva assunto,
gratis e non richiesta, la missione di farmi da tata.
“O’ signurino ha fatto tardi, stanotte! Tene pure ‘e pile
‘e gatta ‘ncoppa ‘o cazone! Sarà ‘na gatta a due zampe!”
brontolò. “So’ ‘e nnove, nun vvaje ‘a faticà ?”
La notizia sgombrò immediatamente la mia mente annebbiata.
Ingollai il caffè e corsi a radermi.
Il coach di Pascale partiva alle nove e mezza. Avevo messo
sicuramente in difficoltà il mio collega che aspettava il
cambio. In più rischiavo, proprio stavolta di non salutare
Pascale.
Fui un fulmine. In quindici minuti ero fuori dalla mia porta.
Non credo di aver ripensato al sogno in quei pochi e trafelati
minuti.
Attraversai il cortile di corsa. Mentre aprivo il portone,
con la coda dell’occhio, intravidi il gatto del sogno, acciambellato
sulla sella di un motorino. Sbadigliando – mi parve – ammiccò
con l’occhio sinistro. Rimasi impietrito. Volai indietro,
dimentico del lavoro, del collega e di Pascale. Salii le
scale a due a due. Ancora col fiatone armeggiai alla solita
serratura difettosa. Finalmente si aprì.
Di fronte all’enorme porta d’ingresso spalancata, appoggiato
al vecchio attaccapanni di ebano, l’enorme cappello piumato
di foggia secentesca salutava la mia definitiva uscita dalla
comunità dei sani di mente.
Sedetti stralunato su una panca, fissando inebetito l’attaccapanni.
Mi scosse l’infaticabile ramazza di Rachelina che, non conoscendo
ostacoli, aveva aggredito le mie scarpe.
Tentai l’ultima carta. “Rachelì, che vide llà?” indicai
l’attaccapanni.
Mi guardò preoccupata. “L’attaccapanni”, rispose riprendendo
il suo lavoro.
“Non vedi niente, sull’ attaccapanni?”
“Siccome non sono cecata ci vedo ‘nu cappiello”. Rispose
senza alzare la testa.
“E come lo sai se non ci guardi nemmeno, là?”
Finalmente s’interruppe. Mi guardò e scoprì le sue gengive
in un sorriso polemico. “Perché il cappiello llà ‘nce l’ho
messo io e quindi lo so che ci sta. ‘Gnorsì. L’ho trovato
in una cascia ‘ncoppa ‘o suppigno e me lo presto perchè
mio nipote sta organizzando una recita. Il permesso l’ho
già chiesto a mammeta. Qualcosa in contrario?”.
Non sapevo se abbracciarla o strozzarla. Ma ero felice di
essere sfuggito ai miei fantasmi e finalmente corsi al lavoro.
La voce di Rachelina mi inseguì per le scale. “Invece ‘e
penzà a’ cappielli, vide ‘e durmì ‘a notte, che si bbianco
comma ‘a ‘nu lenzulo!”
Arrivai in albergo con un ritardo mostruoso. L’ondata delle
partenze del mattino s’era placata. Anche il coach di Pascale
era partito. Il portiere di notte mi guardò torvo. Accennai
una scusa e mi aggiustai la cravatta nel grande specchio
della hall.
Finalmente tranquillo lisciai i miei lunghi e sottili
baffi biondi e rimirai soddisfatto i miei occhi ambrati.
Una anziana signora, con in braccio una splendida gattina,
attraversò la sala. Istintivamente mi voltai:
“Buongiorno!” salutai
“Bonjour monsieur” rispose la signora con un sorriso.
Poi rivolta alla micina: “Saluta il signore, Pascale”
E la gatta, sbattendo le lunghe ciglia, miagolò smorfiosa,
muovendo la zampetta dal lungo pelo vellutato. |