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Il
Conte Rosso
La
banchina era lunga. Duecento metri, circa. Miro volò, nonostante lo
zaino ingombrante e gli scomodi scarponi. Sapeva che era inutile, ma
corse lo stesso; con tutte le sue forze. Si fermò solo vicino alla
bitta, nel punto più lontano, con la punta delle scarpe sospesa
sull’acqua, la testa all’indietro, per bilanciare il precario
equilibrio del corpo sull’unico punto d’appoggio: i suoi talloni.
Stette qualche
lunghissimo secondo in quella scomoda posizione, sudato ed ansimante
per lo sforzo e l’angoscia. Poi si liberò dello zaino e sedette
sconsolato sulla bitta.
Varcando il cancello del porto aveva avuto la conferma che era tutto
inutile. L’ ombra di fumo nel cielo terso. Il piccolo punto rosso
all’orizzonte. La nave era partita. Eppure non aveva potuto fare a
meno di rincorrerla, quella nave, con tutte le sue forze, con tutta
la sua disperazione.
Il “Conte Rosso” era partito. E Miro non poteva più raggiungerlo.
Mai più. Cosa sarebbe successo, ora?
Rimase lì seduto per un bel pezzo, aspettando che il respiro gli
tornasse regolare. La brezza gli asciugava il sudore con una carezza
lieve, in quella bella giornata di primavera. Un abbozzo di sorriso
si disegnò sulla sua bocca sottile, sotto i baffetti acerbi,
all’ombra del naso aristocratico ed affilato. Poi il sorriso si
sciolse, estendosi agli occhi, scuri e vivacissimi. Si passò una
mano tra i capelli impomatati: neppure la corsa, li aveva
scarmigliati. Neppure Rosetta. Annusò l’aria con voluttà e tra
l’odore di iodio e di sale, tra l’odore di porto e di mare sentì,
dolcissimo ed intenso, profumo di gelsomino e lavanda e frutta e
sapone di marsiglia: profumo di donna innamorata, il profumo di
Rosetta.
Si chiese se quel profumo fosse reale, magari perché ne era
impregnata la sua divisa, o fosse solo la rievocazione fantastica di
un ricordo così bello e recente. Socchiuse gli occhi ed annusò di
nuovo.
Imprevedibili i giochi del destino, in quella primavera del ’41.
Pensare che due giorni avanti Miro nemmeno sapeva che esistesse,
Rosetta.
Provò a ripercorrere le tappe di quella strana serie di coincidenze.
Prima la chiamata: fanteria. Poi l’addestramento: Marsala. La
destinazione del suo battaglione: Africa. Il viaggio disastroso
della tradotta da Marsala a Messina. Il ritardo del traghetto sullo
stretto. La coincidenza per Napoli persa a Villa San Giovanni. La
decisione del colonnello, pressato dalla difficoltà di trovare un
alloggio per tutti a Reggio Calabria, di concedere una generale
libera uscita al battaglione per le diciotto ore che li separavano
dal treno successivo.
Per tutti questi motivi s’era trovato a bighellonare alle sette di
mattina per il mercatino di Reggio. Aveva notato qualla bella
ragazza che ricamava e vendeva merletti, sola, dietro ad un
banchetto poco frequentato. L’aveva corteggiata. Ci sapeva fare,
Miro. Avevano pranzato insieme in trattoria. Era stato come se si
conoscessero da sempre. E come se si conoscessero da sempre avevano
fatto all’amore.
Miro aveva notato la piccola fede d’oro al dito di Rosetta, ma non
le aveva chiesto nulla. In uno sguardo di Rosetta aveva letto di un
uomo al fronte, uno di quelli di cui non si avevano più notizie.
“Solo un minuto …” aveva detto Rosetta, ancora insonnolita, mentre
Miro si rivestiva. “…un altro minuto”. Aveva perso il treno, per
quel minuto durato due ore. Poi lo aveva inseguito, quel treno, per
sedici ore, sul camion di un contrabbandiere, l’unica persona che
avesse accettato di dargli un passaggio a quell’ora di notte. Ma il
contrabbandiere aveva da lavorare : deviazioni, consegne,
contrattazioni.
Il “Conte Rosso” era partito per Tripoli. Con a bordo i compagni,
gli ufficiali e quel sergente trevigiano rompipalle.
Il sorriso si accentuò quando Miro si figurò la sua faccia, durante
l’appello del suo plotone, all’adunata, in stazione :
“Marra!” .“Vincenzo!”
“Morgese!”. Silenzio. “Morgese!”. Nessuna risposta. “Morgese
Casimiro! Dove cazzo è finito quel delinquente! Tenente, tenente…”
Lo sciabordio dell’acqua sulla banchina smise di cullarlo. Una
parola gli balenò in mente. “Diserzione”. Il sorriso sparì e Miro si
spiegò perché avesse corso tanto, senza mai darsi per vinto,
sperando, anche di fronte all’evidenza, di riagguantare il suo
plotone. Non era paura della cella di rigore, né della corte
marziale. No. Miro aveva paura dello sguardo di suo padre. E il
momento di affrontare quello sguardo era vicino.
Aldo Morgese
aveva il grado di tenente di vascello, ma non aveva fatto
l’accademia. Era un militare di carriera Aveva preso i galloni sul
campo, e con i galloni alcune decorazioni al merito ed una al
valore. Quelle medaglie sulla divisa avevano sempre fatto a Miro una
certa impressione. Sapeva quanto suo padre fosse austero e rigido.
Sapeva che un’accusa di diserzione per il suo primogenito l’avrebbe
irrimediabilmente offeso. Sapeva che suo padre era a Salerno per
servizio, in quel momento, e che era l’unico che avrebbe potuto
evitargli un processo e forse la fucilazione. Ma Miro avrebbe dovuto
trovare il coraggio di affrontare quello sguardo. E questa volta -
temeva - nemmeno la sua proverbiale faccia tosta, avrebbe potuto
aiutarlo.
Riprese a sudare ma stavolta la brezza gli gelò la schiena. Pensò
che era meglio consegnarsi, prima che lo arrestassero.
Prima di farlo doveva però parlare a suo padre. Doveva affrontare il
suo sguardo.
Si
alzò pigramente dalla bitta e si avviò verso la stazione marittima.
Trovò un passaggio su un mezzo militare in partenza per Salerno e
riuscì ad arrivarci in un paio d’ore.
Non era mai
stato a Salerno e non sapeva dove fossero gli uffici della Marina
Militare. Sapeva solo che la fregata su cui suo padre era primo
ufficiale, l’ “Ibis”, era alla fonda lì per la riparazione dei danni
prodotti da una cannonata.
Non fu difficile rintracciarlo. Lo indirizzarono ad una costruzione
in mattoni di due piani, in un angolo del porto. Il piantone
verificò i suoi documenti e poi lo lasciò salire al secondo piano.
Gli uffici erano brutti e spogli. Fuori dalla porta che gli avevano
indicato c’era un marinaio, di guardia. Miro si presentò e chiese di
parlare a suo padre. Il marinaio lo annunciò, poi lo introdusse ed
uscì.
Aldo Morgese non sollevò nemmeno la testa dalle carte che stava
esaminando. Miro ne fu contento.
Stette in silenzio. Toccava a suo padre parlare per primo. Dovette
attendere per un bel pezzo. Tre, quattro, forse dieci minuti. Finchè
il tenente appose un timbro ed una firma svolazzante al documento
che aveva lungamente esaminato.
“Che hai combinato, questa volta?” – chiese, marcando il suo accento
meridionale, ancora senza guardarlo.
Miro Morgese, sfrontato conquistatore di donne, eroe di mille
mascalzonate con gli amici, ritornò bambino in un attimo.
“Papà… non è stata colpa mia…Papà, perdonatemi! Mi sono addormentato
!” – balbettò.
“Ma che diavolo stai farneticando?” – riprese brusco suo padre
fissando una nuova pratica sulla scrivania.
“La nave, papà … il “Conte Rosso”. E’ partita.”
Miro non aveva aggiunto granchè alla sua spiegazione, ma questa
volta suo padre capì.
Si sollevò dalla sedia con una lentezza esasperante, facendo leva
sui pugni contratti sulla scrivania. Poi i suoi occhi limpidi, verdi
e lampeggianti, si piantarono nello sguardo smarrito e sfuggente di
Miro.
Miro avvertì fortissimo lo stimolo della minzione. Perse qualche
goccia ma riuscì a trattenersi. Si sentì ridicolo in quella divisa
kaki come se fosse nudo. Una cappa opprimente di silenzio e di
sdegno s’impossessò della stanza.
Il marinaio bussò, ma entrò senza attendere autorizzazione.
“Bollettino 276, Tenente” – disse con aria preoccupata porgendo un
dispaccio.
“Grazie, puoi andare”. Rispose l’ufficiale.
Il marinaio uscì sbirciando, mentre il Capitano leggeva il
dispaccio.
Miro vide suo padre posare il foglio sul tavolo e incamminarsi
lentamente verso la finestra. Visto così, di spalle, gli sembrò
fissare un punto lontano, nel mare.
Miro decise di farsi coraggio.
“Papà io non volevo darvi questo dolore... Mi dispiace… Ma prima di
consegnarmi…Ve lo dovevo dire io.”- disse avvicinandosi.
Non ricevendo risposta, Miro osò toccargli una spalla per farlo
voltare. E vide, per la prima ed ultima volta, nella sua vita, due
grosse lacrime rigare il volto di Aldo Morgese. Si ringalluzzì. “Lo
facevo più duro” pensò.
“Mi dispiace” – ripetè dirigendosi verso l’uscio.
Non resistè tuttavia alla tentazione di leggere il bollettino sulla
scrivania:
“Silurata et affondata largo Siracusa nave tradotta Conte Rosso.
Pochi supersiti. Comando Marina Militare, 25 maggio 1941 - XIX, ore
17,45”.
Il marinaio Occhiuzzi, destinato nel 1941 al servizio particolare
del tenente di vascello Morgese, non seppe mai che diavolo avesse
detto il suo superiore a quel giovane fante, per farlo uscire così
stravolto dall’ ufficio. |