GATTI, VICOLI E MIRACOLI

GIAJIN ADAMS

IL CHIODO

IL CONTE ROSSO

LA STRADA

IL RAGGIO VERDE

 

  Il Conte Rosso

La banchina era lunga. Duecento metri, circa. Miro volò, nonostante lo zaino ingombrante e gli scomodi scarponi. Sapeva che era inutile, ma corse lo stesso; con tutte le sue forze. Si fermò solo vicino alla bitta, nel punto più lontano, con la punta delle scarpe sospesa sull’acqua, la testa all’indietro, per bilanciare il precario equilibrio del corpo sull’unico punto d’appoggio: i suoi talloni.
Stette qualche lunghissimo secondo in quella scomoda posizione, sudato ed ansimante per lo sforzo e l’angoscia. Poi si liberò dello zaino e sedette sconsolato sulla bitta.
Varcando il cancello del porto aveva avuto la conferma che era tutto inutile. L’ ombra di fumo nel cielo terso. Il piccolo punto rosso all’orizzonte. La nave era partita. Eppure non aveva potuto fare a meno di rincorrerla, quella nave, con tutte le sue forze, con tutta la sua disperazione.
Il “Conte Rosso” era partito. E Miro non poteva più raggiungerlo. Mai più. Cosa sarebbe successo, ora?
Rimase lì seduto per un bel pezzo, aspettando che il respiro gli tornasse regolare. La brezza gli asciugava il sudore con una carezza lieve, in quella bella giornata di primavera. Un abbozzo di sorriso si disegnò sulla sua bocca sottile, sotto i baffetti acerbi, all’ombra del naso aristocratico ed affilato. Poi il sorriso si sciolse, estendosi agli occhi, scuri e vivacissimi. Si passò una mano tra i capelli impomatati: neppure la corsa, li aveva scarmigliati. Neppure Rosetta. Annusò l’aria con voluttà e tra l’odore di iodio e di sale, tra l’odore di porto e di mare sentì, dolcissimo ed intenso, profumo di gelsomino e lavanda e frutta e sapone di marsiglia: profumo di donna innamorata, il profumo di Rosetta.
Si chiese se quel profumo fosse reale, magari perché ne era impregnata la sua divisa, o fosse solo la rievocazione fantastica di un ricordo così bello e recente. Socchiuse gli occhi ed annusò di nuovo.
Imprevedibili i giochi del destino, in quella primavera del ’41. Pensare che due giorni avanti Miro nemmeno sapeva che esistesse, Rosetta.
Provò a ripercorrere le tappe di quella strana serie di coincidenze. Prima la chiamata: fanteria. Poi l’addestramento: Marsala. La destinazione del suo battaglione: Africa. Il viaggio disastroso della tradotta da Marsala a Messina. Il ritardo del traghetto sullo stretto. La coincidenza per Napoli persa a Villa San Giovanni. La decisione del colonnello, pressato dalla difficoltà di trovare  un alloggio per tutti a Reggio Calabria, di concedere una generale libera uscita  al battaglione per le diciotto ore che li separavano dal treno successivo.
Per tutti questi motivi s’era trovato a bighellonare alle sette di mattina per il mercatino di Reggio. Aveva notato qualla bella ragazza che ricamava e vendeva merletti, sola, dietro ad un banchetto poco frequentato. L’aveva corteggiata. Ci sapeva fare, Miro. Avevano pranzato insieme in trattoria. Era stato come se si conoscessero da sempre. E come se si conoscessero da sempre avevano fatto all’amore.
Miro aveva notato la piccola fede d’oro al dito di Rosetta, ma non le aveva chiesto nulla. In uno sguardo di Rosetta aveva letto di un uomo al fronte, uno di quelli di cui non si avevano più notizie.
“Solo un minuto …” aveva detto Rosetta, ancora insonnolita, mentre Miro si rivestiva. “…un altro minuto”. Aveva perso il treno, per quel minuto durato due ore. Poi lo aveva inseguito, quel treno, per sedici ore, sul camion di un contrabbandiere, l’unica persona che avesse accettato di dargli un passaggio a quell’ora di notte. Ma il contrabbandiere aveva da lavorare : deviazioni, consegne, contrattazioni.
Il “Conte Rosso” era partito per Tripoli. Con a bordo i compagni, gli ufficiali e quel sergente trevigiano rompipalle.
Il sorriso si accentuò quando Miro si figurò la sua faccia, durante l’appello del suo plotone, all’adunata, in stazione :
“Marra!” .“Vincenzo!”
“Morgese!”. Silenzio. “Morgese!”. Nessuna risposta. “Morgese Casimiro! Dove cazzo è finito quel delinquente! Tenente, tenente…”
Lo sciabordio dell’acqua sulla banchina smise di cullarlo. Una parola gli balenò in mente. “Diserzione”. Il sorriso sparì e Miro si spiegò perché avesse corso tanto, senza mai darsi per vinto, sperando, anche di fronte all’evidenza, di riagguantare il suo plotone. Non era paura della cella di rigore, né della corte marziale. No. Miro aveva paura dello sguardo di suo padre. E il momento di affrontare quello sguardo era vicino.
Aldo Morgese aveva il grado di tenente di vascello, ma non aveva fatto l’accademia. Era un militare di carriera Aveva preso i galloni sul campo, e con i galloni alcune decorazioni al merito ed una al valore. Quelle medaglie sulla divisa avevano sempre fatto a Miro una certa impressione. Sapeva quanto suo padre fosse austero e rigido. Sapeva che un’accusa di diserzione per il suo primogenito l’avrebbe irrimediabilmente offeso. Sapeva che suo padre era a Salerno per servizio, in quel momento, e che era l’unico che avrebbe potuto evitargli un processo e forse la fucilazione. Ma Miro avrebbe dovuto trovare il coraggio di affrontare quello sguardo. E questa volta - temeva - nemmeno la sua proverbiale faccia tosta, avrebbe potuto aiutarlo.
Riprese a sudare ma stavolta la brezza gli gelò la schiena. Pensò che era meglio consegnarsi, prima che lo arrestassero.
Prima di farlo doveva però parlare a suo padre. Doveva affrontare il suo sguardo.
Si alzò pigramente dalla bitta e si avviò verso la stazione marittima. Trovò un passaggio su un mezzo militare in partenza per Salerno e riuscì ad arrivarci in un paio d’ore.
Non era mai stato a Salerno e non sapeva dove fossero gli uffici della Marina Militare. Sapeva solo che la fregata su cui suo padre era primo ufficiale, l’ “Ibis”, era alla fonda lì per la riparazione dei danni prodotti da una cannonata.
Non fu difficile rintracciarlo. Lo indirizzarono ad una costruzione in mattoni di due piani, in un angolo del porto. Il piantone verificò i suoi documenti e poi lo lasciò salire al secondo piano.
Gli uffici erano brutti e spogli. Fuori dalla porta che gli avevano indicato c’era un marinaio, di guardia. Miro si presentò e chiese di parlare a suo padre. Il marinaio lo annunciò, poi lo introdusse ed uscì.
Aldo Morgese non sollevò nemmeno la testa dalle carte che stava esaminando. Miro ne fu contento.
Stette in silenzio. Toccava a suo padre parlare per primo. Dovette attendere per un bel pezzo. Tre, quattro, forse dieci minuti. Finchè il tenente appose un timbro ed una firma svolazzante al documento che aveva lungamente esaminato.
“Che hai combinato, questa volta?” – chiese, marcando il suo accento meridionale, ancora senza guardarlo.
Miro Morgese, sfrontato conquistatore di donne, eroe di mille mascalzonate con gli amici, ritornò bambino in un attimo.
“Papà… non è stata colpa mia…Papà, perdonatemi! Mi sono addormentato !” – balbettò.
“Ma che diavolo stai farneticando?” – riprese brusco suo padre fissando una nuova pratica sulla scrivania.
“La nave, papà … il “Conte Rosso”. E’ partita.”
Miro non aveva aggiunto granchè alla sua spiegazione, ma questa volta suo padre capì.
Si sollevò dalla sedia con una lentezza esasperante, facendo leva sui pugni contratti sulla scrivania. Poi i suoi occhi limpidi, verdi e lampeggianti, si piantarono nello sguardo smarrito e sfuggente di Miro.
Miro avvertì fortissimo lo stimolo della minzione. Perse qualche goccia ma riuscì a trattenersi. Si sentì ridicolo in quella divisa kaki come se fosse nudo. Una cappa opprimente di silenzio e di sdegno s’impossessò della stanza.
Il marinaio bussò, ma entrò senza attendere autorizzazione.
“Bollettino 276, Tenente” – disse con aria preoccupata porgendo un dispaccio.
“Grazie, puoi andare”. Rispose l’ufficiale.
Il marinaio uscì sbirciando, mentre il Capitano leggeva il dispaccio.
Miro vide suo padre posare il foglio sul tavolo e incamminarsi lentamente verso la finestra. Visto così, di spalle, gli sembrò fissare un punto lontano, nel mare.
Miro decise di farsi coraggio.
“Papà io non volevo darvi questo dolore... Mi dispiace… Ma prima di consegnarmi…Ve lo dovevo dire io.”- disse avvicinandosi.
Non ricevendo risposta,  Miro osò toccargli una spalla per farlo voltare. E vide, per la prima ed ultima volta, nella sua vita, due grosse lacrime rigare il volto di Aldo Morgese. Si ringalluzzì. “Lo facevo più duro” pensò.
“Mi dispiace” – ripetè dirigendosi verso l’uscio.
Non resistè tuttavia alla tentazione di leggere il bollettino sulla scrivania:
“Silurata et affondata largo Siracusa nave tradotta Conte Rosso. Pochi supersiti. Comando Marina Militare, 25 maggio 1941 - XIX, ore 17,45”.
Il marinaio Occhiuzzi, destinato nel 1941 al servizio particolare del tenente di vascello Morgese, non seppe mai che diavolo avesse detto il suo superiore a quel giovane fante, per farlo uscire così stravolto dall’ ufficio.

 

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