GATTI, VICOLI E MIRACOLI

GIAJIN ADAMS

IL CHIODO

IL CONTE ROSSO

LA STRADA

IL RAGGIO VERDE

 

 

 Gianjin Adams

Le grosse scarpe di suor Candida ondeggiarono lente nel corridoio. La maniglia scricchiolò nel silenzio e la porta cigolò stancamente sui cardini: alla porta degli ammalati non si usa bussare. “Temperatura!”, disse infilando il termometro in uno spazio tra le fasce.
Il paziente la seguì con un lento spostamento degli occhi mentre usciva.
La successiva tappa di suor Candida era la sala dei medici. Questa volta bussò.
“Avanti!!”, si sentì calma e profonda la voce del primario.
Suor Candida entrò con tutta la rapidità che le consentiva la sua artrosi.
“Professore” - esordì - “volevo parlarle del paziente della 48. Sono preoccupata. Sembra non abbia nessuna voglia di guarire. Non collabora. So che capisce benissimo la nostra lingua : il suo mutismo è voluto!”
Il primario si grattò il testone pelato con aria pensierosa, poi, senza guardarla, come parlasse a se stesso:
“Suor Candida è intelligente e riflessiva. Ma conosce molto il cielo e poco il mondo! Era così fino a qualche giorno fa. Ma sta cambiando…E’ già cambiato. Un caso difficile, non solo dal punto di vista medico…Qualche giorno ancora, forse qualche settimana e poi potrò spiegarle. Però non stia in pena” - concluse uscendo - “non si preoccupi…” - e richiudendo la porta alle sue spalle - “…non si preoccupi…”.
Suor Candida rimase da sola nella stanza. Pensò semplicemente che il professore fosse impazzito e, senza scomporsi, andò a ritirare il termometro.
Mancavano due minuti a mezzogiorno, due lunghi minuti, poi lei sarebbe comparsa da quella porta, puntuale come sempre.
Un occhio al cronometro ed uno alla porta, un occhio alla porta ed uno al cronometro: Adams, in quegli ultimi secondi, entrava in uno stato di totale paranoia.
Quando tre mesi prima lo avevano ricoverato al pronto soccorso di quell’ospedale, a seguito dell’incidente sulla vicina provinciale, aveva pensato che non ne sarebbe uscito vivo…e, comunque così sfregiato, così orribilmente deturpato, non è che gliene importasse poi molto…
Il professor Pesenti, primario noto per la sua abilità di chirurgo ma anche per la sua grande umanità, si fermava spesso nella stanza di quel suo sfortunato paziente. Aveva notato con piacere che qualcosa era venuto a scuotere l’apatia di Gianjin.
“Dottore” – gli aveva chiesto il giovane non appena in forze – “cosa si può fare per il mio viso? Il mio aspetto è…insomma lei mi vede…”
“La ricostruzione dello zigomo e della mandibola richiede tempo” – aveva risposto il chirurgo – “poi il problema dei vasi, la circolazione…Insomma lei deve avere pazienza:  sulla parte estetica potremo intervenire solo in un secondo momento”.
“…Sempre che si possa intervenire….” – aveva aggiunto Adams con amarezza.
Neanche il tempo aveva attenuato questa sua profonda depressione. Voleva morire. Quando (raramente) si guardava allo specchio provava orrore a vedere quello scempio. Ragnatele di cicatrici  e, soprattutto, una espressione che non aveva nulla di umano: un ghigno. Anche se la ricostruzione delle ossa del volto procedeva con buoni risultati funzionali, quello che vedeva in quello specchio si poteva definire in un modo soltanto: un mostro!
L’unico raggio di luce  nelle tenebre che circondavano la sua vita era quella quotidiana  apparizione che continuava a lasciarlo senza parole.
Le braccia e le mani ancora non le muoveva bene: per ricomporre le varie fratture erano occorsi diversi interventi.  Per lavarsi e per altre funzioni corporali aveva a disposizione una squadra di infermieri molto in gamba.   Ma, per mangiare...il volontariato: in molti ospedali anziani ed invalidi vengono aiutati da volontari in genere giovani della parrocchia o donne di mezza età, dame di carità.
Elena costituiva un’eccezione. Aveva 30 anni, alta bionda con dei capelli lisci lisci che arrivavano appena sulle spalle e un volto bellissimo, la cui dolcezza era come attenuata da un velo perenne di tristezza.
Il professor Pesenti pensò che quella donna l’aveva mandata il Cielo: per la ripresa del suo paziente (e che paziente!) valeva più di qualsiasi altra medicina.  Per questo aveva avvicinato la bella volontaria e le aveva detto: “Elena, si è accorta che la sua importanza, per il signor Adams, va ben oltre il fatto che lei lo imbocchi?”
La ragazza aveva portato entrambe le mani al petto, con gesto di contrizione e aveva detto: “Si, il signor Adams mi si è molto affezionato…ma non vorrei, professore, aver esagerato… Se crede, posso cambiare il turno.”
“No, no, anzi…” – aveva replicato Pesenti – “volevo proprio pregarla di continuare; da quando c’è lei la ripresa del paziente va a gonfie vele”.
“Se lei lo ritiene opportuno, professore, cercherò di stargli vicino. D’altra parte, anche se riesce a parlare solo a monosillabi ed è un po’ scontroso, non le nascondo che a me è simpatico”.
Per il paziente quelle visite erano l’arcobaleno in una giornata uggiosa. Anche quel giorno il suo cuore era in fibrillazione, quando la maniglia scattò e la porta ricigolò sui cardini.
Guardò deluso suor Candida ritirare il termometro e ripetere meccanicamente, mentre segnava su un diagramma:
“Trentasei e quattro”.
Erano almeno venti giorni che la sua temperatura era rientrata nella norma e Adams si domandò che senso avesse quella ostinazione nel misurarla.
“In America”, pensò “non sprecherebbero il tempo in questo modo”.
Sentì sussurrare nel corridoio e realizzò che la porta non si era richiusa alle spalle di suor Candida. Riconobbe la voce,  roca e sommessa, di Elena. Ebbe il tempo di pregustare il suo profumo, la sua presenza, le sue attenzioni, il calore del contatto con le sue mani. Qualche secondo dopo i passi leggeri ed il sorriso della giovane seguirono la sua ombra in quella stanzetta di ospedale.
“Buongiorno, Gianjin! Come si sente oggi?”
In un attimo, per lui, fu primavera.
Nello stesso momento, a più di mille chilometri di distanza, miss Page bussava alla porta del mio ufficietto.
“Sir Edward vorrebbe vederla…subito!”, sussurrò.
“ Sir Edward? …Vado” risposi sorpreso.
Sir Edward J. Lawrence, oltre che il presidente della “Lawrence & C. Insurance”, e cioè la compagnia per la quale lavoravo, era sicuramente uno degli uomini più importanti d’Inghilterra. In dieci anni di lavoro come liquidatore della sua società, lo avevo incontrato tre volte in ascensore, dove aveva garbatamente risposto al mio saluto. Non ero mai entrato nel suo ufficio, nonostante per un breve periodo avessi avuto una certa familiarità con Miss Griffiths, la sua dattilografa di fiducia, con la quale avevo in comune il colore dei miei radi capelli, gli occhi neri ed una certa disposizione per lo champagne . Miss Page mi introdusse, con i suoi modi discreti. Non avevo avuto nemmeno il tempo di fare delle congetture. Entrando salutai con cortesia, sforzandomi di non mostrarmi servile. Il cuore mi batteva forte.
“Mr. Marullo! - sorrise tranquillo - mi dicono che lei è tra i più abili liquidatori della nostra compagnia…”
Il suo tono mi distese e ripresi il controllo dei nervi: pensai fosse meglio evitare frasi fatte e mi limitai a fissare Sir Edward con attenzione aspettando che continuasse. Esitò. Un punto a mio favore.
“…. Che è nato a Napoli - riprese - e che parla perfettamente l’italiano…” .
Attesi ancora. Stavo andando bene.
Continuò, ma assunse un tono più deciso . “ Mai sentito parlare di Gianjn Adams?” chiese a bruciapelo.
Rovistai mentalmente gli ultimi giornali e rotocalchi che avevo letto. “Non è quell’americano che ha fatto i soldi progettando i sistemi di sicurezza delle maggiori reti informatiche?”, risposi.
“Già!” - borbottò Sir Ewards -  E’ l’unico erede di una enorme fortuna. Ed è uno dei nostri migliori clienti”.
Mi sforzai di dare al mio volto un espressione che fosse insieme intelligente ed interessata. Non saprò mai se ci riuscii.
“Adams ha avuto un grave incidente mentre era in vacanza in Italia”  -  riprese secco Sir Edward. - E’ricoverato in un ospedale a Firenze. E’  ridotto male e non so se potrà riprendere a lavorare. Siamo tenuti a pagargli un’enormità di indennizzo e non credo ci sia nulla da fare… Tuttavia vorrei che lei andasse in Italia per qualche settimana… Sa!..potrebbe raccogliere qualche elemento sull’incidente, capire le possibilità di recupero di Adams, parlare con i medici, la polizia…Non si sa mai! Anche se credo non ci sia nulla da fare…   ”
Sir Edward mascherava bene, ma si capiva che era giù di morale: il contratto di Adams doveva essere davvero blindato.
Io non stavo meglio di lui. Le pulsazioni mi aumentarono in misura esponenziale. Credo che arrossii violentemente.
Esitai. Sentii vacillare in un minuto tutti gli equilibri che pensavo di avere raggiunto in quei dieci lunghi, interminabili anni. Mi sforzai di dominarmi, ma era inutile: avevo perso il controllo. “Lei sa perché ho lasciato l’Italia, Sir Edward?” La mia voce suonò stridula, troppo alta ed acuta.
“Lo so”, rispose cauto.
“E allora perché mi chiede questo, Sir Edward ?” Ero sull’orlo di una crisi di pianto.
Con movimenti lentissimi trasse da un portasigarette d’argento una stranissima sigaretta, evidentemente confezionata a mano, che mi sembrò una via di mezzo tra un sigaro ed una sigaretta egiziana. La accese ed aspirò lentamente una boccata di fumo, denso ed aromatico. Mi meravigliai che non me ne offrisse una.
Più tardi, ripensando a quella scena, ho messo a fuoco il contrasto tra i suoi modi gentili e quel gesto, quasi di difesa. Di fuga.
“Perché lei è il più adatto a questa pratica” - riprese secco - perché non mi piace mescolare le vicende personali con quelle di lavoro e ….- abbozzò un sorriso di comprensione - perché credo che dieci anni siano abbastanza per superare persino ciò che è capitato a lei. Naturalmente può rifiutarsi, se vuole”.  
“Quando vorrebbe che partissi?” domandai nervoso.
“Al più presto” rispose.
“Ho bisogno di un giorno per decidere!” dissi brusco, come parlando a me stesso.
“Ha bisogno comunque di qualche giorno per studiare la pratica” sorrise, “Miss Page le fornirà le copie dei contratti e l’assisterà per qualunque cosa le occorra”.
Tornai a casa senza rientrare nel mio ufficio, accompagnato da fantasmi e ricordi. Fu una notte terribile: la peggiore degli ultimi dieci anni.
La mattina dopo arrivai in ufficio insolitamente trascurato. Non mi ero rasato e la mia faccia esibiva l’insonnia e gli incubi della notte.
Decisi di studiare comunque il fascicolo Adams, indipendentemente dalla decisione sul mio eventuale viaggio in Italia. Chiamai Miss Page al telefono e la pregai di mandarmi l’incartamento.
“E’ già sulla sua scrivania, Mr. Marullo! E’ sulla destra, vicino al telefono. Sir Edward ha disposto in tal senso”.
Mi indispettii. Il vecchio dava per scontato che sarei andato. Presi un’ altra pratica e la sfogliai distratto. Non riuscivo a concentrarmi. Come un eroe tragico decisi di andare incontro al mio destino: Adams.
Al momento dell’incidente Adams era solo in auto e senza documenti. Per la sua identificazione le autorità italiane avevano dovuto aspettare che fosse in condizione di parlare. Quando lo fu, aveva pregato medici e poliziotti di non svelare, ancora per qualche tempo, la sua identità. Non si sentiva pronto a tener testa a giornalisti e paparazzi. La sua volontà era stata rispettata e Gianjin Adams era rimasto in quell’ospedale pubblico, assistito come un paziente qualsiasi. La cosa era stata facilitata dal fatto che egli parlava perfettamente l’italiano.
Il contratto di assicurazione non aveva nulla a che vedere con i nostri soliti moduli del ramo infortuni. Il premio era  pazzesco. Ma di appigli, cavilli, clausole impugnabili (almeno per noi), nemmeno l’ombra.
L’indennizzo era commisurato al reddito annuo dichiarato dell’assicurato. Una cosa spaventosa. Sir Edward e Mister Adams non avevano fatto un contratto. Avevano fatto una partita di poker. E tutto lasciava pensare che l’avessero, per un verso o per l’altro, persa entrambi.
Non c’era nulla da dire, nulla da aggiungere e nulla da fare.
L’unica cosa che mi riusciva misteriosa era il motivo che poteva spingere un uomo freddo e razionale come Sir Edward a pagare la trasferta di un suo collaboratore (che peraltro sarebbe tornato in Italia malvolentieri), per cercare una soluzione che non c’era.
Credo che la curiosità di capire questo comportamento irrazionale fu la molla che mi spinse ad accettare l’incarico.
La voglia, poi, di sperimentare i confini del mio cinismo mi consentì di affrontare il mio passato. Ero sempre stato un po’ disincantato. Diciamo pessimista. Solo ora mi rendevo conto che, dopo quello che mi era capitato dieci anni prima, avevo sviluppato quell’aspetto del mio carattere e ne avevo fatto una barriera contro il dolore. Riuscivo, col tempo, a sorridere di tutto, anche delle tragedie. Chissà se un giorno avrei saputo ridere della mia.
Una settimana dopo il mio colloquio con Sir Edward volavo verso Firenze con la mente piena di numeri e clausole di contratto. Avevo realizzato che la nostra compagnia avrebbe perso a causa di quell’incidente, a seconda dei danni riportati da Adams,da un minimo di 50 ad un massimo di 120 milioni di sterline. Certo dalla vicenda avremmo avuto un piccolo ritorno positivo in termini di pubblicità. Ma quello che più spaventava erano le imprevedibili conseguenze per il nostro titolo in Borsa, quando la notizia si fosse diffusa.
Il comandante annunciò che stavamo sorvolando le Alpi. Mi sporsi oltre la spalla del mio vicino per guardare le cime dall’oblò. Varcavo quel confine dopo dieci anni. Venivo meno al mio impegno di non mettere mai più piede in Italia. Eppure non avvertivo nessuna particolare sensazione, eccezion fatta per la mia innata, ed accuratamente nascosta paura di volare.
L’aereo atterrò in orario. La vecchia Fiat travestita da taxi mi portò all’albergo, in pieno centro storico. Il mio paese di nascita mi accolse con tutti gli onori : grazie al portafogli di Sir Edward un cameriere in livrea s’impossessò della mia borsa e mi scortò alla stanza con vista sui tetti del cuore di Firenze.
Rinviai all’indomani qualsiasi iniziativa e  dedicai quello scorcio di giornata alla città.
Bighellonai pigro per il centro. Da ragazzo, in gita scolastica avevo visitato i principali monumenti. Ciò nondimeno potevo affermare tranquillamente di non conoscere Firenze.
La passeggiata mi mise di buon umore.
L’indomani alle dodici e trenta  bussavo alla porta della stanza di Adams nell’ospedale di Santa Maria della Misericordia.
Per evitare di innervosirlo avevo preannunciato la mia visita con qualche ora di anticipo. Ero riuscito ad ottenere il permesso di entrare fuori orario di visita: in Italia, una mancia ad un infermiere fa miracoli.
“Permesso?” sussurrai entrando nella stanza. Non sentendo alcuna risposta avanzai di un passo. Avvertii odore di cibo e di medicine, puzza di chiuso e un celestiale profumo femminile.
“Permesso?” ripetei.
“Avanti!”, mi rispose una voce di donna.
Entrai. Vidi sul tavolino i piatti sporchi di un pranzo appena consumato.
Una ragazza, bellissima, era seduta sul letto. Aveva i capelli legati e seguiva attentamente, con gli acuti occhi grigi, i miei movimenti.
Adams, un mostro, gli arti ancora fasciati, era disteso e fissava il soffitto con un’espressione sognante negli occhi chiari.
“E’ lei Mister Adams?” chiesi educatamente in inglese.
Un cenno degli occhi di Adams mi indicò che ero nella stanza giusta.

“Marullo. - proseguii - Mario Marullo della Lawrence Insurance. Avevo fatto avvertire….”.
Gli occhi di Adams, con un cenno mi indicarono la sedia vicino al letto.
La donna si alzò con calma, senza imbarazzo, come chi sa esattamente quello che deve fare, e disse piano: “Devo andare, ora, Signor Adams. Tornerò questa sera. Non si stanchi troppo a parlare d’affari”.
Gli accarezzò affettuosamente un braccio fasciato e poi rivolse a me col capo un cenno di saluto. I suoi occhi ebbero un movimento strano, lento e continuo, ma non le si chiusero. Solo quando furono divenuti due fessure, con la stessa lentezza presero a riaprirsi.
Prima di accettare quel lavoro in Inghilterra ero stato per cinque anni vice dirigente del Commissariato di Torre Annunziata. Avevo dovuto lasciare la polizia perché mi avevano fatto capire che avevo pestato i piedi a qualcuno di troppo grosso.
Per la verità, non era stato facilissimo farmelo capire. Non ero mai stato molto pronto, nè troppo furbo. Così per convincermi a lasciar perdere erano stati costretti  a tentare di farmi la pelle. 
Mi avevano aspettato a Torre, nella zona del porto, dove ogni tanto andavo a comprare il pesce fresco con cui dar libero sfogo alla mia passione per la cucina.
Avevano organizzato tutto per bene. Non avevo avuto nemmeno il tempo di capire cosa stesse succedendo. Avevano sparato con due mitragliette, dai due lati della macchina.
Luisa, che aveva fatto la fesseria di sposarmi un anno prima, era morta sul colpo, e con lei la creatura che portava in grembo.
Ascione, appuntato, ventisei anni, una moglie ed un bambino di tre mesi, aveva avuto un funerale di Stato ed una decorazione alla memoria, “per avere generosamente fatto scudo col corpo al suo dirigente Marullo, obiettivo dell’ agguato”. Quel fesso. Se li avesse lasciati fare forse se la sarebbe cavata, e con lui  Luisa.
Così, oltre allo scrupolo di avere praticamente ammazzato mia moglie e mio figlio, ebbi anche quello di avere reso, rispettivamente vedova ed orfano, la signora Ascione e la sua prole.
Quando ero, mio malgrado, guarito dalle ferite riportate, avevo fatto ciò che avrei dovuto fare molto prima: ero scappato.  Me ne  ero andato senza rimpianti, dalla polizia e dall’ Italia. A riguardare quei dieci anni mi sembrava di non avere fatto altro che scappare.
Avevo lasciato nelle mani del mio avvocato la gestione di tutti gli aspetti giuridici connessi alla vicenda. Un processo agli assassini, poi, non c’era mai stato, perché i miei colleghi, pur mettendoci l’anima nelle indagini, non erano arrivati a capo di niente.
Tra me e la mia storia avevo messo tanti di quei cavalli di Frisia che, a meno di particolari momenti, o situazioni, i ricordi non mi riuscivano dolorosi, perché ne avevo negato l’appartenenza. Una cosa però mi era rimasta: l’istinto dello sbirro.
E nella scia di profumo che quella donna aveva lasciato dietro di sè, in quel battito degli occhi da iguana,  nel contrasto tra le frasi formali ed il tono confidenziale che avevo ascoltato, sentii subito odore di zoccola.
Mentre la ragazza usciva, combattei con coraggio l’istinto dello sbirro napoletano che tentava di prevalere su quello dell’assicuratore inglese. Avrei voluto fare ad Adams qualche domanda sulla zoccola, che oltretutto mi intrigava.
“Come sta, Mister Adams?”- chiesi invece -“Sir Edward mi ha mandato a sincerarmi delle sue condizioni ed a rimproverarla per aver tentato di toglierci uno dei nostri migliori clienti”.
“Sir Edward l’ha mandata a vedere quanti quattrini gli costerà questa storia – sorrise - anche se io ne pagherei il doppio per riavere la mia faccia”.
Anch’io sorrisi. Mi feci raccontare dell’incidente e dei danni che aveva riportato.
Era uscito di strada in un curva sulla provinciale che collegava Fiesole con la Cassia. Tornava da una cena con amici in un lussuoso ristorante ricavato in una antica villa rustica.
Il contratto non poneva limiti al suo diritto al risarcimento. Anche ad ipotizzare una guida in stato di ebrezza la “Lawrence” avrebbe dovuto comunque pagare.
Provai a chiedere di questi suoi amici, che non si erano più fatti vivi. Della sua vacanza in Toscana. Fu vago. Percepii una affinità. Come me era un solitario, uno che scappava.
Quasi di sfuggita mi accennò di aver desiderato di morire. Poi si soffermò su quanto fosse stata determinante per lui l’amicizia con la volontaria che era appena uscita, che scoprii chiamarsi Elena: una donna eccezionale. Gli aveva trasmesso fiducia in se stesso e nel prossimo: adesso voleva tentare di  riprendersi, nonostante la deformità, probabilmente irreversibile.
In un’ora e mezzo di chiacchiere non avevo trovato un solo appiglio per tentare di far risparmiare qualche soldo a Sir Edward. Lo sapevo, ero preparato. Ma la cosa mi deprimeva lo stesso.
Sconsolato provai col medico.
Il professor Pesenti era un brav’uomo ed un bravo medico. Tutto sommato era un saggio.
Con lui le cose non andarono meglio. La maggior parte delle lesioni di Adams erano irreversibili. La faccia di Adams sarebbe rimasta irrimediabilmente deturpata. La lesione cerebrale aveva prodotto la paresi del lato sinistro, destinata ad un recupero solo parziale. L’infrazione all’epistrofeo fortunatamente non era degenerata in frattura. Ma rispetto alle condizioni generali del paziente questa era una magra consolazione.
Più significativo, invece, era per Pesenti il mutamento di umore di Adams manifestatosi nell’ ultimo periodo, attribuito alle cure della volontaria Elena.
Adams si mostrava più collaborativo nelle terapie e questo lasciava spazio ad un minimo ottimismo per le rieducazioni da intraprendere a breve.
Pesenti mi elencò poi una sfilza di danni permanenti minori. Insomma, eravamo sui massimali di polizza. E siccome quel matto di Sir Edward, i massimali, li aveva legati ai guadagni di Adams, che non erano certamente di scarso rilievo, eravamo veramente messi male.
Ero troppo depresso per sentire anche la polizia stradale. Decisi di andare a fare un giro. In ascensore incontrai l’infermiere che mi aveva introdotto ad Adams.
Non fui io a parlare. Fu lo sbirro. “Cosa sai di quella ragazza che ho incontrato dal signor Adams?” 
“Niente di particolare – disse - Don Luigi Minciaroni, il parroco di Santa Chiara all’Arno ha organizzato questo servizio di volontariato. C’è un po’ di tutto. Ricche signore, studenti, ma anche sbandati che lo ringraziano della sua ospitalità rendendosi disponibili”.
“Tu si’ ‘nu bravo guaglione - gli dissi - ma parli troppo con gli estranei. A sud di Roma camperesti poco! Statti buono!”
Rimase di sasso.
Tornai in centro e cominciai a bighellonare alla ricerca di una idea che mi desse la soluzione del mio problema professionale. Mi resi invece conto che in ventiquattrore di presenza sul suolo italico si erano già risvegliate le mie peggiori tendenze: sfiducia nel prossimo, presunzione, turpiloquio, mancanza di scrupoli. Con l’infermiere era riemerso anche il dialetto.
Istintivamente, quasi senza rendermene conto mi diressi verso Santa Chiara all’Arno, che non distava molto dal mio albergo.
Quando fui in zona cominciai a fare qualche domanda in giro sulla signora.
Iniziai dal parroco, don Minciaroni. Mi presentai come un innamorato non corrisposto della signorina Elena.
Il prete non mi piacque. Il suo altruismo mi sembrò falso e la sua faccia esprimeva cose diverse da quelle che dicevano le sue parole. Mentre conversavamo sul sagrato, gli scappò un occhiata assassina ad una minigonna di non più di quindici anni.  Mi convinsi che fosse anche un po’ maiale. Non era nemmeno brutto: alto, magro, lineamenti angolosi e – Dio mi perdoni  - aria da scomunicato.
Lui stesso mi presentò la signora Costa, una bella e ricca signora, un po’ in là con gli anni, ma ancora piacente. Era la principale benefattrice della nostra Elena, della quale, attraverso un complesso meccanismo di pause e silenzi, mi raccontò molto più di quanto volesse.
Quando il prete salutò la signora le tenne viscidamente la mano per qualche secondo e, mentre mi veniva da vomitare, pensai:
“Chissà mai perché questo pezzo di merda si è fatto prete!”
Prima di andare a letto avevo un quadro chiarissimo della situazione: la zoccola si chiamava Elena Barziz. Veniva da Capodistria. Per qualche mese aveva fatto davvero la mignotta da marciapiede. Alcuni mesi prima era stata indagata, ma poi prosciolta, per l’improvvisa morte del suo sfruttatore, avvenuta per avvelenamento da funghi.
I piccioncini avevano raccolto funghi insieme in Garfagnana. Poi la Barziz li aveva cucinati nell’appartamentino di lui a Pontremoli. Il piccioncino c’era rimasto secco. La piccioncina no, perché non mangiava funghi: a lei piaceva solo raccoglierli, i funghi.
Dopo lo sfortunato episodio si era redenta e con l’aiuto di don Minciaroni aveva trovato da sbarcare il lunario facendo la commessa in un negozio di abiti. Tutto il  tempo libero, da tre mesi, lo destinava all’ assistenza degli ammalati. La signora Costa, presidentessa delle “Pie Dame di Carità”, le aveva anche offerto di andare a vivere in casa sua.
Lo stesso aveva fatto, ma per tutt’altri motivi, Ernesto, un toscanaccio dai capelli rossi, capomeccanico in una concessionaria della zona.
Elena non aveva accettato nessuna delle due offerte e, mettendo insieme i primi risparmi, aveva affittato un minuscolo appartamentino senza riscaldamento in centro storico. Anche se nessuno me lo aveva detto avrei scommesso un mese di stipendio che Elena, con grande discrezione e con tutt’ altri sistemi, facesse ancora la vita.
Dieci minuti prima che io entrassi in quella stanza di ospedale quel fesso di Adams le aveva chiesto di sposarlo. Naturalmente lei aveva rifiutato. Non perché Gianjin avesse la faccia deturpata e seri dubbi permanessero sul fatto che la sua virilità fosse sopravvissuta all’ incidente. Solo perché “era presto e non si conoscevano abbastanza”. Adams, uno squalo della finanza senza cuore né anima era, di fronte ad Elena, indifeso come un bambino.
Mi addormentai come un angioletto.
Mi svegliai presto. La mattinata era umida. La colazione era stata abbondante. Perciò decisi di raggiungere a piedi il commissariato della Polstrada.
La passeggiata fu abbastanza lunga. Mi fu utile per prepararmi psicologicamente a varcare ancora una volta la soglia di una sede della polizia.
L’edificio era moderno, appena alla periferia della città. La stradale era al piano terra. La Pubblica Sicurezza al primo piano. Attraversai il cortile con la paura che qualche vecchio collega di corso fosse finito lì e mi riconoscesse.
Passai invece inosservato. Entrai nell’androne. La differenza di temperatura mi appannò gli occhiali. Mentre li pulivo con il fazzoletto dissi al piantone, con tono deciso e senza guardarlo, che avevo bisogno di parlare con il dirigente.
Ovviamente lui tentò di fare filtro. Avevo programmato di marcare l’accento inglese e di fingermi dell’Interpol. Non fu necessario: una piccoletta alle mie spalle interruppe le discussioni e, con tono gentile ma autoritario, mi disse di seguirla.
Mentre mi precedeva nel suo ufficio mentalmente inquadrai: capelli corti castani; occhi grandi, pure castani; naso all’insù; orecchie piccole; corporatura minuta e proporzionata; passo svelto; sorriso aperto, sguardo leale: mi piaceva.
“De Cecco”, si presentò tendendomi la mano.
“Marullo”, risposi stringendogliela vigorosamente.
Misi da parte i miei piani e le spiattellai chiare e tonde le mie domande, avendo cura di tacere solo i miei trascorsi di poliziotto.
Le feci una corte serratissima. Purtroppo però era anche lei un bravo sbirro e capì subito le mie intenzioni: mi spiegò la dinamica dell’ incidente, mi fornì copia del verbale e mi salutò con un sorriso della serie a-me-non-mi-prendi-per-il-culo-paisà.
L’istinto mi diceva che se c’era un imbroglio questo faceva sicuramente capo ad Elena. Nutrivo un forte sentimento di pena per Adams. Come poteva un uomo tanto intelligente, che aveva avuto tanto successo, essere così stupido?
L’ultima carta che potevo giocarmi era di far eseguire una perizia sulla macchina dell’americano. Era sotto sequestro giudiziario. Chiesi l’autorizzazione al giudice e telefonai.
“ Ciccio, so’ Marullo, ti ricordi di me?”
“E chi si scorda dotto’, con quello che vi è successo…”. Poi riprese immediatamente il suo buonumore: “Certo che me ne avete scassate di macchine a Torre!”
“Stammi a senti’, Ciccio, puoi venire a Firenze a farmi un piacere? Voglio farti vedere una macchina incidentata per capire se c’è qualche cosa che puzza.”
“Dottò, ma che fate ‘na ata vota o’ poliziotto?”
“Nossignore, Ciccì, faccio l’ assicuratore. Ma anche in questo mestiere ci stanno  mariuoli che imbrogliano”.
“Dottò, ma non ci sta nessun impiccio?!?”
“No Ciccì, c’ho l’autorizzazione del giudice!”
“Va buò, vengo domani. Venitemi a piglià alla stazione. Vi faccio sape’ a che ora arrivo”.
Ciccio era andato in pensione quando io ero uscito dalla polizia. Era stato per vent’anni il capofficina dell’autoparco.
Se fosse esistita una specializzazione di patologo dell’ automobile gliela avrebbero data honoris causa.
Arrivò alla stazione a mezzogiorno e lo portai subito al garage. Esibii il mandato del giudice ed avemmo accesso alla vettura di Adams, semidistrutta dall’urto e da quella breve fiammata che si era sviluppata nell’abitacolo, a causa della quale la faccia di Adams era stata irrimediabilmente rovinata.
Mentre Ciccio lavorava alla macchina andai a prendere un caffè. M’accingevo a pagare, alla cassa, quando sentii la voce roca e sensuale di Elena alle mie spalle. Ebbi il tempo di adattare la mia espressione alla bisogna.
“Buonasera” salutai con aria imperturbabile.
Stava con Ernesto, il meccanico della vicina concessionaria. Era più brava di me. Sebbene presa alla sprovvista recitò alla grande.
Finse prima di non riconoscermi, poi di ricordarsi della mia faccia ma non del mio nome, poi di ricordarsi anche quello. Tutto questo con semplici e naturali atteggiamenti del volto. Il “buonasera” che concluse la pantomima fu magistrale. Me l’avrebbe anche fatta se avesse controllato quel suo battito di ciglia da serpente a sonagli. Invece non riuscì a controllarlo ed io lo registrai puntualmente.
Aspettai che uscisse per prima. Era inutile seguirla. Le guardai volentieri il posteriore ed ebbi un pensiero di comprensione per Adams. Poi tornai da Ciccio.
Alle dieci ero in pizzeria con Ciccio a bestemmiare su quanto fossero cattive le pizze al di fuori Napoli. Ciccio aveva trovato i freni della macchina in condizioni d’usura anomale rispetto alle altre parti meccaniche. Questo poteva essere indicativo di una manomissione, ma anche semplicemente di un modo di guidare. Ciccio, comunque propendeva per la prima ipotesi: i freni erano stati manomessi. Bene, ma manomessi.
Un’altra cosa strana era che dal verbale della stradale risultava che Adams aveva la cintura di sicurezza allacciata. Il professor Pesenti mi aveva raccontato di aver estratto dalla faccia di Adams quarantuno frammenti di vetro in massima parte provenienti dal parabrezza.
Poiché non poteva essere stato Adams a colpire il parabrezza, doveva essere stato il parabrezza a colpire Adams.
Su questo Ciccio non mi potè essere d’aiuto. La guarnizione del parabrezza era andata perduta al momento di recuperare la macchina.
Ma chi poteva avere interesse a fare la pelle all’americano? La risposta che mi veniva d’istinto era: la zoccola. Però non riuscivo ad intuire né i motivi né il sistema. Lo sfruttatore lo aveva accoppato coi funghi. Ma perché poi Adams, e simulando un incidente in macchina? Tantopiù che Elena aveva ricevuto la richiesta di matrimonio solo in ospedale, dopo aver conosciuto Gianjin. E se Adams fosse crepato nello scontro, prima di sposarla, la zoccola non avrebbe ereditato nulla.
“Ciccì” dissi “sti toscani sapranno fare la carne e i fagioli, ma con la pizza si devono stare quieti. Qua ci vuole mezzo chilo di bicarbonato. Manco avessimo mangiato un mattone”.
“Dottò, senza offesa” borbottò Ciccio estraendo da una tasca,con aria circospetta una piccola fiaschetta “tengo il nocillo di Teresa che è meglio del bicarbonato”.
Pagammo in fretta ed uscimmo a passeggiare nella serata tiepida. Il mio aplomb britannico si era dissolto in sette giorni. La mia povera madre, inglese del Devonshire, si stava probabilmente rivoltando nella tomba. In silenzio scambiammo un paio di volte la fiaschetta col nocillo traendone lunghe sorsate.
“Ciccì” dissi, “secondo me ti sei sognato. Vicino a quei freni non c’era proprio niente. Quello non è sposato, non ha eredi, non ha fatto testamento. Se vuoi trovare uno che abbia un movente per fargli la pelle devi ipotizzare il complotto internazionale, politico o finanziario. Diciamo, per esempio, la Cia, che tanto ce la fanno entrare sempre quando crepa qualcuno. Mo’ a te ti pare possibile che uno che la Cia vuole morto se ne sta tre mesi in grazia di Dio in ospedale senza nemmeno ricevere un paio di tentativi di avvelenemento? Una mezza iniezione di cianuro? No, Ciccì. Quelli non se lo sarebbero inculato coi freni. E soprattutto non avrebbero sbagliavato”.
“Forse avete ragione dotto’”. - bofonchiò Ciccio - “Mi sarò sbagliato. Qua l’unico movente poteva essere l’eredità. E l’erede poi si pappava pure l’assicurazione vostra. Siccome eredi non ce ne aveva, l’unico che poteva avere seriamente interesse ad uccidere Gianjin Adams era … Gianjin Adams”.
Mi sbattei violentemente il palmo della mano sulla fronte: “Puttana E…lena, Ciccì! Anzi zoccola!”
“Miss Page…Sono Marullo….Mi sente? Porc…”
“Mister Marullo…Ma che modi….Cosa le è successo?”
“Ho bisogno di parlare con Sir Edward, urgentemente… Può passarmelo?
“Vedo subito!”
“Grazie….” Vecchia befana!
“Hallo, Marullo…Novità?”
“ Si, Sir Edward. Avevo pensato di concordare un premio per l’ eventuale esito positivo di quest’incarico. Ma, a pensarci bene ad un  inglese è meglio proporre una scommessa. Il mio impiego contro una vacanza di due mesi a sue spese. Io dico che lei non pagherà nulla a Gianjin Adams. Ci sta?”
Esitò. Sapevo perfettamente che stava pensando di licenziarmi per la mia faccia tosta. Non potè : una iniziativa di tal genere contrastava con il suo amore per i quattrini, con il suo gusto per le scommesse e con il fatto che, tutto sommato, gli ero simpatico.
“Ci sto” disse, “ma dove farebbe questa vacanza?”
“A Napoli, naturalmente!”
“Scusi, ma Lei non è nato e cresciuto a Napoli?”
“Certo, ma non ci sono mai stato in vacanza!” 
Due mesi dopo ero in vacanza a Napoli. Ciccillo e Fonzo o’ Niro sedevano con me da Augusto a Mergellina, davanti a una sontuosa granita.
Fonzo era un elettrauto sopraffino. Il suo secondo soprannome era “’o prufessore”. Quando Fonzo e Ciccio parlavano di macchine erano come Casanova e Don Giovanni che parlassero di femmine. Erano massime della Cassazione.
“Dottò, ma come avete fatto a capire il fatto?”
“Ciccì sei stato tu, quando hai detto quella stronzata che solo Gianjin Adams poteva avere interesse ad accoppare Gianjin Adams”.
“Dottò, e questo che c’entra?”
“Ciccì scetate! Trovano uno sfigurato, senza documenti dentro a una macchina sfrantumata. Quando si ripiglia dice di essere un miliardario e gli si attacca alle palle una zoccola, il cui magnaccia è morto per avvelenamento da funghi. Tutti pensano che l’ha accoppato lei ma non c’è una prova che sia una. Il riconoscimento del magnaccia, fra l’altro, l’ha fatto sempre lei perché nessuno sapeva chi cazzo era. Tu mi dici che solo il miliardario poteva avere interesse ad accoppare il miliardario…Ciccì, il milardario era schiattato davvero e  il lenone si è sfigurato ben bene per fare il miliardario.
Ha ideato tutto la zoccola che aveva casualmente conosciuto Adams una sera, nell’esercizio della sua professione. Insieme al magnaccia ha ideato l’uccisione di Gianjin col veleno. Un paio di giorni prima, ha convinto Ernesto, il meccanico, ad affittare con i documenti di Adams la macchina dall’autonoleggio Majestic Rent, e poi gliela ha fatta manomettere: freni pronti a cedere e  parabrezza con la guarnizione allentata. A cose fatte, dopo che Gianjin era passato a miglior vita, ha chiesto al magnaccia di riportare l’auto fino alla Majestic Rent, con la scusa di evitare che quelli ne denunciassero la scomparsa. Non gli aveva detto niente. Aveva paura che si tirasse indietro di fronte al rischio di rimanerci, nell’ incidente. Lei seguiva con un’altra auto. Quando chillu ricottaro s’è appizzato, la zoccola si è fermata, è scesa, gli ha messo una schifezza sulla faccia ed ha acceso il micciariello, perché le fiamme rendessero irriconoscibile la faccia. L’ha cumbinato comme n’ora ‘e notte”.
“Ma come lo avete provato, dottò?”
“Ho convinto la De Cecco a fare il poliziotto invece che il vigile urbano. Non ne voleva sapere, ma quando le ho detto del vigile urbano si incazzata come una leonessa! Che femmina! Ha fatto quattro smorfie ad un collega della scientifica e quello stronzo ha fatto esumare il cadavere e confrontare il Dna dei resti con altri vecchi reperti. Il magnaccia era pure schedato e se lo sono inculato con le impronte.”
“Dottò, ma mo’ vi fermate due mesi a Napoli? Ma come vi è venuto  di farvi pagare una vacanza di due mesi al paese vostro?”
“Embe’ Ciccì, io sarò mezzo inglese, ma tu si miezze scemo. Mo’ ti metti a fare le stesse domande di Sir Edward! Scusa ma dove lo trovi nel mondo un posto per le vacanze meglio di Napoli. Vuoi andare a Capri? Capri. Sorrento? Sorrento. Capo ‘e Monte, Pusilleco… pensa a quanti monumenti di Napoli tu ed io non abbiamo mai visto. Oltretutto qua ho pure gli amici e qualche parente. E sto all’ “Excelsior” a piè di lista…. Invece sai qual’ è la fesseria che ho fatto, Ciccì? ”
“No dottò” rispose pensieroso Ciccio.
“E’ che non mi sono fatto autorizzare un poco di shoppìng a spese della Compagnia. A Londra le scarpe costano assai e fanno schifo …  e non parliamo delle cravatte. Anzi quelle scarpe ti fanno proprio venì ‘e calle. Secondo me gli inglesi teneno ‘e piedi ‘e ciuccio.”
“Eppure dottò, qua quando uno vuole un paio di scarpe buone chiede ‘e scarpe inglesi!”
“Hai ragione! Chissà pecchè ‘e scarpe inglesi ‘e Napoli so buone e ‘e scarpe inglesi ‘e Londra fanno schifo…”
“Stasera addò mangiate dottò, a Marechiaro?” domandò Fonzo incuriosito dal mistero del piè di lista che mi consentiva di pranzare tutti i giorni al ristorante senza spendere una lira.
“No stasera no…” risposi imbarazzato “…sono a cena da amici a Fratta Grande.”
Ciccio si accarezzò lentamente il mento con le grosse dita callose e nere: “Dottò, ma quella commissaria della Stradale, la De Cecco, non era proprio di  Frattamaggiore?”
“Ciccì, si’ ‘nu sfaccimm’!”

 

GATTI, VICOLI E MIRACOLI

GIAJIN ADAMS

IL CHIODO

IL CONTE ROSSO

LA STRADA

IL RAGGIO VERDE