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Il Chiodo
Io
gliel’avevo detto, a mia moglie. Ma mia moglie ha la testa
dura. Durissima. Una bella testa, intendiamoci. Funziona
quasi sempre alla perfezione. Le suggerisce sempre con precisione
quello che deve fare o deve dire. Quasi sempre quello che
non deve fare. Quasi, ho detto. Su quest’ultimo punto qualche
volta sbaglia. Per testardaggine, ostinazione. Non la condanno.
E’ questa una delle poche cose in cui ci assomigliamo.
Una sera, dunque, sei mesi fa, mia moglie mi fa:
“Vorrei attaccare un chiodo sulla parete del salotto. Un
bel chiodo robusto. A pressione. Lo mettiamo col trapano.
Sulla consolle. Che ne pensi?”
“Penso che sei matta. E perché poi? A che ci serve un chiodo
lì? Magari fa cascare anche l’intonaco. E poi quella è una
parete delicata. Che ne sappiamo se un buco lì si può fare
senza inficiare la statica della casa. Si sentono tante
cose strane!”
Mi fece subito il muso.
“Ecco. Non posso mai fare quello che mi piace. In questa
casa non c’è libertà! Potremmo attaccarci un quadro. O uno
specchio. Si uno specchio sarebbe meglio. Un bello specchio
grande!”.
“Tu sei matta! E comunque basta. Non se parla proprio. Figuriamoci.
Un chiodo. E a pressione poi. Te lo proibisco nella maniera
più assoluta!”.
Naturalmente non finì lì.
Dopo una settimana di broncio non riuscii più a resistere:
“Cos’hai?”, le chiesi.
“Niente.”
“Allora?”
Anch’ella non riuscì a resistere:
“In questa casa tutti fanno quello che gli pare. Solo io
non sono libera nemmeno di piantare un chiodo!”
Riflettei un attimo. Decisi di mostrarmi elastico.
“Senti”- dichiarai - “la casa è anche tua. Non posso impedirti
di piantare un chiodo. Sappi però che, se lo fai, mi deludi
profondamente. E’ una cosa che ritengo pericolosa e di cattivo
gusto. Anzi, penso che se lo farai la nostra vita non sarà
più la stessa!”.
Mia moglie si acquietò, e non se ne parlò per qualche mese.
Salvo una sera, in cui, nel bel mezzo di un altro discorso,
tirò fuori che, prima o poi, avrebbe piantato il chiodo.
Ma non detti peso a quella minaccia.
Avevo avuto una brutta contrarietà in ufficio e gliel’avevo
confidata. Di solito non le parlavo del mio lavoro. Ma quella
volta avevo avuto bisogno del suo conforto. Non potevo pensare
che, in un periodo così delicato, le venisse in mente di
pensare al suo chiodo.
E invece, rincasando una sera, la trovai stranamente eccitata.
“Vieni”, mi disse guidandomi in salotto con dolcezza.
E poi, soddisfatta: “Guarda!” – aggiunse mostrandomi, sulla
parete, sopra la consolle, un orribile chiodo a pressione
piantato nel muro. “Non è carino?”.
Non risposi. Andai a letto senza cenare e senza aggiungere
altro. Mi feriva che avesse deciso aggiungere un altro dispiacere
ai tanti che avevo in quel periodo. E quella sgradevole
carognata di non riaprire più il discorso, attendere che
mi calmassi per mettermi poi davanti al fatto compiuto...
Era veramente una mancanza di rispetto. Non lo sopportavo.
Quella notte dormii poco. Al mattino le dissi deciso:
“Se non togli subito quel chiodo dal muro faccio le valigie
e me ne vado!”
Avrei voluto aggiungere che pretendevo le sue scuse. Ed
era vero. Non ne ebbi il coraggio, però, per paura di pungere
il suo orgoglio.
“Tu sei matto”, rispose. “ Ma veramente tu lasceresti moglie
e figli per un chiodo? Non ci posso credere. E poi a me
il chiodo piace!”
“E una questione di principio”, dissi. “ E non sottovalutare
che quell’enorme chiodo ha forato una parete portante. La
nostra casa è antica. Prima o poi verrà giù tutto”.
“A me sembra piccolissimo. Comunque ci penserò su”, rispose
seria.
Già dal giorno dopo comparve, vicino al chiodo, una piccolissima
crepa sulla parete. Quando la vidi ebbi subito chiaro che
il danno era grave ed irreparabile. Tuttavia le dissi:
“Tira via quel chiodo e chiama subito il muratore, prima
che venga giù tutto”.
“Ti ho detto che ci penserò”- rispose - “Ma sappi che non
ne ho nessuna voglia e quindi non ho fretta. A me il chiodo
piace”.
Per due mesi ci parlammo appena. La mia irritazione cresceva
giorno dopo giorno. E, giorno dopo giorno, si estendeva
in maniera preoccupante il danno sul muro.
Ormai la parete sulla quale il chiodo era stato infitto
era diventata una immonda ragnatela di crepe e spaccature
di varia forma misura e profondità.
La mia preoccupazione aumentò. Provai a cambiare tattica.
Mi mostrai indifferente. Cercai di non parlare più del chiodo
a mia moglie. Cominciai a soffrire d’insonnia. Passavo le
nottate in salotto a guardare quel maledetto muro che lentamente
e inesorabilmente si sgretolava. Mi irritavo terribilmente
a guardare mia moglie che dormiva placida, felice che del
chiodo non si parlasse più. Resistetti un mese. Poi non
ne potei più. Quando la ragnatela delle lesioni attaccò
anche la parete contigua, sbottai.
“Ma hai visto quello che sta succedendo in salotto, o sei
diventata cieca?”
“Cosa?” – mi rispose placida.
“Il tuo maledettissimo chiodo sta distruggendo la nostra
casa!”
“Esagerato!” – rispose – “quattro piccole crepe sull’intonaco.
Sai che a Giuliana è piaciuto moltissimo? Ed anche ad Mariella!
Vedrai che ti ci abituerai anche tu”.
La sua intenzione era chiara. Il chiodo sarebbe rimasto
lì. Col tempo le mie proteste si sarebbero affievolite ed
io mi sarei rassegnato. Decisi di tornare all’attacco. La
posta era troppo alta. Non potevo permettere, senza nemmeno
tentare di intervenire, che distruggesse la nostra casa
per un capriccio.
“Senti, io ci ho provato ad accontentarti. Ma non ce la
faccio. Se non riesco a convincerti che il chiodo è pericoloso,
che è inutile (sono tre mesi che non ci hai attaccato nulla),
che è brutto e sgradevole, ti chiedo di farlo togliere per
me: io per quel chiodo mi sto ammalando!”.
“Ma ormai rimarrebbe il buco. Anche a volerlo togliere il
muro non tornerebbe mai più come prima!”.
“Lo so. E’ per questo che non bisognava piantarlo! Ma bisogna
tentare lo stesso”.
Ci pensò su qualche minuto. Mi conosce bene, mia moglie.
Molto meglio di quanto io conosca lei. Si dovette convincere
che non scherzavo. Ed aveva ragione.
“Va bene” – disse seccata – “ mi informerò sulla maniera
migliore di toglierlo. Ma sappi che mi rendi infelice”.
Mi sentii sollevato. Le credetti. Non si trattava di renderla
felice o infelice, pensai. Si trattava di renderla più o
meno infelice. E certamente la soluzione migliore era togliere
il chiodo. Ella non voleva che la casa crollasse, magari
seppellendo noi tra le macerie. Solo non credeva che un
semplice chiodo potesse far crollare un edificio. Sospettava
che esagerassi per averla vinta sul chiodo. Ero però riuscito
ad insinuarle il dubbio che avessi ragione, e di fronte
a questo dubbio si era capacitata che era meglio togliere
il chiodo e non correre rischi.
Sull’urgenza della cosa, però, non ero riuscito a convincerla.
Né avevo insistito, per la verità. Rischiavo di irritarla
e farla recedere dal suo poco convinto proposito. La mia
preoccupazione tuttavia aumentava.
Le crepe si erano estese anche al corridoio e minacciavano
le altre stanze. Il salotto era inguardabile. Durante le
mie notti insonni, spesso avevo sentito sinistri scricchiolii
che mi procuravano una indicibile angoscia.
Mi convinsi che di quest’angoscia sarei morto.
Non le dissi nulla. Solo una volta, poiché un discorso me
ne offrì l’occasione, le detti qualche istruzione sulla
mia sepoltura e sulle cose da fare in caso che ella mi fosse
sopravvissuta. Avrei voluto lasciarle una lettera ma non
ne ebbi mai il coraggio: non avrei resistito alla tentazione
di incolparla di quanto stava succedendo e sapevo che l’accusa
di un morto le avrebbe rovinato la vita. In fondo le volevo
bene, anche se mai come in quel momento mi rendevo conto
di non conoscerla.
Quando, specie di notte, passavo
qualche minuto a fissare il chiodo, la mia angoscia lasciava
il posto ad una incontenibile rabbia. In quei momenti desideravo
picchiare mia moglie. Come poteva essere così cieca e così
sorda? Tuttavia per un altro mese mi comportai con indifferenza.
Quando però vidi che dal soffitto del salotto cominciavano
a cadere dei calcinacci mi procurai una lista dei migliori
muratori della zona e gliela passai senza commenti. S’irritò
molto, ma non protestò.
Dopo qualche giorno mi disse di aver contattato uno dei
muratori che però le aveva dato la sua disponibilità a fare
il lavoro solo dopo l’estate.
“Ti sta bene,” – mi chiese con aria di sopportazione – “
o vuoi che cerchi qualcun altro per farlo subito?”
Non risposi. “Speriamo che non sia troppo tardi!” – pensai.
Quando,
questa mattina, ho visto quel camion sfondare il guard-rail
e venire a tutta velocità verso la mia auto, non ho avuto
tempo di pensare a nulla. E nulla ricordo dell’incidente.
Qui, nell’ambulanza, fa caldo. Si soffoca. Non c’è spazio.
Con questo tubo in bocca poi. Amaro. E questa sirena che
mi martella il cervello.
Non era un notiziario. Era uno di quei comunicati via radio
che passano gli organi di Pubblica Sicurezza. L’ho ascoltato
distrattamente, qui, nell’ambulanza:
“Attenzione…Crollata una palazzina in via dei Tigli. Potrebbero
esserci delle vittime... Tutte le pattuglie e le autoambulanze
in zona sono invitate ad intervenire…
E’ giovedì. Erano in casa. Lo sapevo. Riesco a ruotare gli
occhi verso il medico che osserva il tracciato della macchina
alla quale sono attaccato. Scuote la testa, rivolto al portantino.
Nemmeno io me la caverò.
Meno male. Non ce l’avrei fatta da solo.
Io gliel’avevo detto a mia moglie. Ma mia moglie ha la testa
dura. Durissima. |