GATTI, VICOLI E MIRACOLI

GIAJIN ADAMS

IL CHIODO

IL CONTE ROSSO

LA STRADA

IL RAGGIO VERDE

 

  La Strada

Quella mattina ero veramente di buon umore. Mentre mi radevo pensai che nell’ ultimo anno non avevo sbagliato un colpo. Tutto sembrava andare per il verso giusto, procedere senza intoppi.
A giugno avevo finalmente discusso la tesi ed archiviato la pratica Università. In settembre era arrivato il colloquio alla “Est Oil” e l’inaspettata assunzione. Stage di due mesi a Milano, poi l’ assegnazione: settore commerciale, Centro Sud.  Tra Pescara e Potenza avevo poi scelto la seconda, più vicina a casa e più tranquilla sotto l’aspetto lavorativo. Il lavoro mi piaceva. Molto.
Giravo tutta la Regione e - più che un venditore- ero un consulente commerciale per i gestori dei distributori di carburanti che l’ azienda aveva in zona. Avevo cominciato a dicembre, con la prima nevicata, e mi ero ambientato in fretta, trovando subito il feeling giusto con quella buona gente lucana, abituata al lavoro duro ed ai principi antichi.
L’ ufficio a Potenza era stato istituito con la mia assunzione e questo mi aveva certo facilitato nei rapporti. Quei primi mesi di lavoro stavano dando ottimi risultati. I miei capi erano contenti di me, e soprattutto io ero contento di me stesso. Non avvertivo nemmeno il disagio di tornare a casa solo per il fine settimana.
Lì, poi, mi attendevano i faticosi preparativi per il mio matrimonio, ormai deciso, nonostante la resistenza passiva di mia madre che lo riteneva prematuro. Ero caricatissimo. Più aumentavano gli impegni, più migliorava la mia capacità di affrontarli e gestirli.
Consumai la colazione con appetito e,  ben coperto dalla mia nuova giacca di montone, lasciai il piccolo albergo di Rifreddo, nel quale avevo pernottato. Erano le nove. Non mi fu possibile partire prima di mezz’ora perché il transito era stato interrotto in attesa del passaggio degli spargisale. Il contrattempo non mi innervosì. Era una bellissima giornata di febbraio. Fumai una sigaretta godendo la bellezza selvaggia di quei luoghi. Poi, con calma, ripulii dal ghiaccio il parabrezza ed il lunotto della mia nuova macchina. Infine, ancora una volta, assaporai il miracolo di un diesel che riparte dopo una notte a meno otto.
Percorsi con calma i venti chilometri che mi separavano dalla mia prima visita della giornata, al più grande degli impianti che curavo, sul cui piazzale s’affacciava anche il mio ufficietto.
Arrivai poco prima delle dieci. Michele Sibarita, il vecchio gestore, stava uscendo dal chiosco brontolando, trascinando la gamba destra dolorante per l’artrosi. Gli avevo già visto altre volte quel berretto di pelo col paraorecchie, ma quella mattina non potei fare a meno di sorridere:
“M’chè,”- esclamai in un misto di lucano e napoletano -“me pari ‘nu sovietico!”
“Tu stai sempe a scherzà!”-rispose- “Hai durmito fino a mo’… eh? Va’ vide….dint’ stace l’Utìf !”.
L’ “Utìf” era l’ Ufficio Tecnico delle Imposte di Fabbricazione. Le loro visite di controllo erano temutissime dai benzinai, che raramente ce la facevano a uscire indenni dalle contestazioni, spesso per loro incomprensibili.
Ero preoccupato mentre entravo, ma mi rasserenai subito. Era proprio la mia giornata. Chino sul registro, intento ad armeggiare con la calcolatrice, riconobbi il Maresciallo Pagano, che non era dell’ “Utìf”, ma del Nucleo di Polizia Tributaria della Guardia di Finanza di Taranto.
Ci eravamo conosciuti un mese prima, in un’analoga occasione ed avevamo immediatamente simpatizzato. Il Maresciallo era originario di Lauro, un piccolo paese della provincia di Avellino, vicinissimo a Nola, dove per un curioso caso scoprimmo di avere alcuni amici in comune.
Era una persona molto seria. Un po’ pignolo, forse, ma onesto. Il mio amico Michele se la cavò con centomila lire di meritata multa per tenuta irregolare del registro.  Sopportò pazientemente i miei “te-l’-avevo-detto-io” mentre sorbivamo un caffè.
“Addò vaje, oggi?” mi chiese al momento dei saluti.
“A  Rionero, Melfi, Venosa e, se faccio a tiempo, pure a Palazzo !” risposi.
“Oggi era meglio ca jive allà!” disse Michele alludendo con un cenno del capo al lontanissimo Jonio.
“Pecchè?” domandai.
“’O tiempo se guasta oggi, accà!” rispose. Poi pensò un momento e sentenziò: “Face neve!”
“M’chè, comme te vene?!” sbottai imitando il suo dialetto meglio che potei “Stace ò sole, face ‘nu friddo ‘e paccie, comme cazzo fa’ a ffa’ stà neve! Ma che tiene, ‘e calle! Famme fa’ ‘na grattata…. và!”.
“Chiamame primma ‘e scennere”, disse serio, “ca si ‘o fatto è malamente te ne vai pe l’ autostrada!”
“M’chè, l’ autostrada porta a Napoli. Oggi nun è venerdì è giovedì ! Pe turnà alla casa, è ampresso!”
“Nun è mai ampresso pe turnà alla casa!” rispose ostinato.
“Certo ca ‘a tenite ‘a capa tosta, ‘a cheste parti!” – brontolai - “ Statte buono!”
“Cia… ciao, e statte accuorto!”
Mi avviai così verso il Vulture seguendo l’ itinerario che mi ero prefissato. Uscito dal traffico della zona alta di Potenza, approcciai con lena le curve della statale che mi conduceva alla superstrada.
Riandai al battibecco meteorologico con Michele sorridendo soddisfatto del buon livello di comprensione ed espressione del dialetto potentino che avevo raggiunto. Dovevo, è vero, migliorare il mio rapporto con il materano. Il coro a voci sovrapposte in materano stretto dei fratelli Del Gaudio mi metteva seriamente in crisi. Ma in fondo erano solo tre mesi che conoscevo quel mondo.
Distratto da mille pensieri e da nessuno in particolare, mi godevo il paesaggio innevato, indorato dal sole. Adagiato sul colle, con le sue torri squadrate, il bellissimo castello normanno di Lagopesole mi balenò a sinistra. Quanta storia e cultura era passata per quei luoghi !
In un ora ero a Rionero. La visita fu breve: il gestore, Gerardo Chiappa, era a casa con l’ influenza. D’ altra parte, quand’anche ci fosse stato non sarebbe cambiato granchè. Era anziano e malandato e nessuna delle sue tre figlie aveva voglia di continuare la sua attività. Illustrai al genero Nicola, muratore, i termini essenziali della nuova azione promozionale che avevamo in programma e lo pregai di farmi chiamare dal suocero non appena si fosse rimesso.
A mezzogiorno ero a Melfi. Qui, sebbene non avessimo che un piccolo impianto ricavato su un marciapiede, mi fermavo sempre volentieri.
Appena arrivato, con intraprendenza tutta giovanile,   mi ero ficcato in testa di cambiare il gestore di quell’impianto ed avevo convinto i miei capi a scegliere due fratelli, pratici del mestiere perché figli d’ arte, giovani e motivati.
Vito e Vitantonio (che fantasia, quei genitori!), mi stavano dando grandi soddisfazioni e li incontravo sempre volentieri. Erano all’incirca miei coetanei ed erano animati dalla mia stessa ansia di far bene e di far presto. Mi divertiva molto assumere nei loro confronti l’aria paternalistica del fratello maggiore, che ha studiato e la sa lunga.
Pranzammo insieme in un ristorante del posto. Cercai di tener dietro al loro appetito ma alla quarta portata dovetti fermarmi, mentre loro imperterriti ripulivano piatti e piattini. Bevvi due bicchieri  di un delizioso spumante nero dalla vena leggermente dolce e dal profumo fruttato. Parlammo di donne, di calcio e di affari. Alla fine mi ordinarono un carico di lubrificanti pregiati.
Dopo il caffè presi per Venosa. Cominciai a valutare l’idea di saltare la visita a Palazzo e tornare a Potenza. Il cielo cominciava ad incupire e solo allora mi resi conto di quanta inquietudine mi avesse trasmesso l’aria preoccupata del mio amico Michele. Comunque era troppo presto per tornare a Potenza. L’unica cosa che veramente riusciva a terrorizzarmi, in quel periodo, era l’idea di un inutile ed inoperoso pomeriggio in albergo. 
Arrivai a Venosa alle quattro. Avevo ancora due ore di luce. Forse meno, con quel tempo. Cercai di essere rapido. La gestione della piccola stazione di servizio era intestata alla signora Comatiello, una vedova sessantacinquenne. Suo figlio Spartaco, che si interessava di fatto della conduzione, l’aveva già cacciata nei guai un paio di volte, consentendo dilazioni di pagamento a ditte poco affidabili.
Il lavoro che mi aspettava qui non era tra i miei preferiti: dovevo incassare il controvalore di un assegno andato insoluto a prima presentazione e, in caso di mancato pagamento, disporre il rifornimento dell’impianto solo previo pagamento anticipato. Era una questione delicata ed antipatica. Si trattava di capire se si trattasse di una difficoltà solo temporanea o già incancrenita.
Un rimedio troppo drastico poteva rilevarsi peggiore del male, facendo precipitare una situazione recuperabile e portando la gestione ad un fallimento che, oltre a non ristorarci del nostro credito, avrebbe certamente paralizzato l’impianto per tempi non prevedibili.  In più cominciavo ad essere  preoccupato per il ritorno.
Con Spartaco e con sua madre andai subito al sodo prospettando il problema ed i suoi possibili sviluppi. Cercai di farli parlare per capire la gravità della situazione economica. Ovviamente Spartaco minimizzava. Si capiva chiaramente che la madre era più preoccupata dei fagioli che bollivano nella “pignata”, che dei milioni dei quali io cercavo di capire la sorte. Tuttavia fu un suo intervento a risolvere, almeno per quella sera, i miei dubbi.
Si discuteva della necessità di cambiare le condizioni di pagamento qualora quella sera stessa non fosse stato estinto il debito. Era chiaro che l’ intera cifra non sarebbe stata disponibile prima di un mese. Spartaco protestava vivacemente contro quell’inumano e stupido aut-aut. Poiché i suoi argomenti  cominciavano a mettermi in difficoltà, cercai, un po’ vigliaccamente, di attribuire quella rigorosa condizione agli ordini di miei, non meglio identificati, superiori.
La signora Comatiello, per un momento lasciò in pace la “pignata”. Si voltò lentamente e, con un sorriso tranquillo, mi disse: “Dottò, lascili stà ‘e superiori, ca nun se ne ‘mportano nenti! Arrecuordate ca chi vole và, chi nun vole manna!”
Non mi impressionò tanto la verità di quelle parole, quanto il riascoltare, in un altro dialetto, quel proverbio così familiare, tante volte ripetuto da mia nonna e da mia madre. Decisi su due piedi: accettai un minimo acconto sul debito e l’ impegno sulla parola che entro due settimane sarei tornato ad incassare una cifra pari alla metà del dovuto. Lasciai immutate le condizioni di pagamento, rifiutai gentilmente l’invito a restare per  cena e mi preparai ad uscire.
Erano le sei. La temperatura doveva essere vicina allo zero. Quel freddo era eccezionale anche per quelle zone. Prima di partire chiesi di poter fare una telefonata.
“M’chè, che dici?”
“Addò staje?”
“A Venosa.”
“Fermate  a durmì là.”
“Ma cà nun ce stanno alberghi pe’ ‘e vizi mie!” risi.
“Allora vettenne a Melfi”.
“Là è ‘a stessa cosa”.
“Allora và a Candela, pigliate l’autostrada e vattenne alla casa!”
Diventai serio: “Pecchè?”
“Pecchè cà nun può arrivà, ca face neve e viento. E’ ‘na bufera !” disse con una “e” strettissima. “ E pò” soggiunse “si ‘o vuò sapè, oggi tenivi ‘na faccia ca nun me piaceva!”
“Michè, si ‘nu mufetone e ‘na seccia nera!” sbottai riappropriandomi del mio dialetto. “Però stavota te voglio stà a sentì! Me ne vaco a’ casa e dimane me piglio ‘nu juorno ‘e ferie! Male nun me farà! Statte buono, ce vedimmo lunnedì!”
“Statte buono, e và chianu chianu!”
Chiesi a Spartaco indicazioni sulla strada da seguire per Candela, dove avrei preso l’autostrada per Napoli. Sarebbe stata una bella sorpresa per i miei e per Marina.
In fondo per il venerdì usavo organizzarmi giornate meno pesanti.  Non avevo niente di improrogabile in programma. Il mio capo non avrebbe avuto nulla in contrario, tanto più che obiettivamente c’era il problema della neve. E poi, un venerdì a casa era proprio quello che ci voleva.
Spartaco mi suggerì una scorciatoia. Oltre ad abbreviare il percorso, aveva il vantaggio di passare in fondovalle ed evitare così il valico della superstrada, che rischiavo di trovare chiuso per la neve. Tracciò su un foglio una piantina e vi indicò le svolte ed i punti di riferimento che potè ricordare.
Ricordo che mi salutò abbracciandomi.
Scesi da Venosa dal lato opposto a quello per il quale vi ero arrivato. Conoscevo quel primo tratto di strada che avevo spesso percorso per andare a Palazzo. Al bivio per Palazzo tirai dritto, con quel senso di soddisfazione e di inquietudine che hanno i ragazzi che marinano la scuola.
Seguii per Spinazzola, secondo le istruzioni di Spartaco. Cominciai a percorrere la vecchia provinciale con prudenza. Non nevicava. I campi, per quel che potevo distinguere nell’oscurità, erano nudi. Dovevano essere coltivati a grano. Passai un corso d’acqua. Un affluente del Bradano o dell’ Ofanto, credo. Prima di Spinazzola, secondo le istruzioni, presi a sinistra. Non vi erano indicazioni.
Dopo circa mezz’ora  da che avevo svoltato, cominciai a preoccuparmi. Erano già diversi chilometri che non incontravo né bivi, nè zone abitate, né indicazioni.  Avessi percorso la superstrada, avrei raggiunto Candela in circa tre quarti d’ora. Spartaco mi aveva detto che per la scorciatoia avrei impiegato una mezz’ora. Vero che me l’ero presa comoda, ma stavo guidando da un’ora e non avevo la minima idea di dove fossi.
Istintivamente controllai il livello del gasolio. Benedissi la mia abitudine di viaggiare sempre col serbatoio pieno. Rallentai ed accostai. Tirai il freno a mano e lasciai il motore a minimo. Accesi la luce di lettura e consultai la mia piantina. Riandai mentalmente al percorso fatto e lo trovai conforme alle istruzioni. La strada sulla quale mi trovavo avrebbe dovuto portarmi direttamente all’autostrada. Probabilmente Spartaco usava percorrerla ad andature diverse ed io ero il solito posapiano.
Convinto di trovare a breve l’autostrada, ripartii.
Guidai per un'altra mezz’ora su quella strada rettilinea e pianeggiante. Era chiaro che mi ero perduto. Nonostante il freddo, sudavo. Scoraggiato mi fermai per un bisogno urgente. Questo fatto mi rimise di buon umore. Chissà perché, pisciare per strada, mette allegria.
Mi rimisi alla guida. Potevo tornare indietro, a Venosa. Avrei ritrovato la strada facilmente. Ma alle volte è più facile affrontare l’ignoto che il ridicolo. Andai avanti.
Dopo poco la strada riprese a salire e ritornò tortuosa. Era chiaro che ero fuori strada, ma ne fui contento. Ormai avevo rinunciato a tornare a casa.  Erano le otto di sera. Quand’anche fossi arrivato a Candela avrei dovuto affrontare  almeno due ore di autostrada, con in mezzo il tratto appenninico. Per fortuna non mi aspettava nessuno.
No. Avrei proseguito fino al primo centro abitato e li avrei cercato da dormire. Cercai di trovare il lato comico della situazione ma, forse per la stanchezza, ero nervoso.
Guidai per altre quattro ore senza trovare nulla che non fossero strada, alberi, campi, fiumi. Stavo diventando pazzo. Ero intorpidito dalla posizione di guida e mi sentivo i riflessi appannati per la stanchezza. Avevo paura di addormentarmi in macchina. Paura del freddo. Paura dei malintenzionati.
Accostai ancora a destra. Presi dal cassetto portaoggetti un cioccolatino al liquore e lo masticai, lentamente, quasi fosse la medicina che poteva risolvermi i problemi. Poi spensi il motore e scesi a fumare una sigaretta. L’ aria era finissima. Il silenzio assoluto. Avrei giurato di essere in montagna. Mi meravigliava solo che non ci fosse neve.
Ripresi a guidare. La situazione non mutava. Verso le due ebbi un colpo di sonno. Ripresi in tempo la macchina, svegliato dal rumore anomalo delle ruote sul terriccio della cunetta. Lentamente accostai e spensi il motore. Allentai il nodo della cravatta, bloccai le porte dall’ interno, reclinai il seggiolino e mi addormentai.

Quando mi svegliai era ancora notte. Il mio Philip Watch automatico era fermo alle tre e venticinque del diciannove. I miei sforzi per farlo ripartire furono vani. Mi stropicciai gli occhi e, sbadigliando, riaccesi il motore. Come al solito partì al primo colpo. Guardai istintivamente l’orologio digitale della macchina. Vidi, sorpreso, quattro zeri lampeggianti.
Ripresi la strada, quasi con curiosità. “Che sia un sogno?”-  pensai.
Non saprei dire quanto tempo ancora guidai. Credo almeno tre ore. Albeggiava quando mi si accese la luce della riserva. Finalmente, dietro ad un curva in leggera salita, scorsi la sagoma di una casa. Avvicinandomi riconobbi le forme ed i colori inconfondibili delle cantoniere.
Mi scappò una bestemmia mentre scendevo dalla macchina di fronte alla casa. Scaricavo tensione.
Alzai gli occhi a cercare il cartello blu che avrebbe dovuto riportare il numero della statale ed il chilometro al quale mi trovavo. Lo scorsi sul lato sinistro, quello opposto a quello dal quale io provenivo, ma era arrugginito e semicancellato. Si leggevano solo alcune cifre della progressiva e la sigla “S.S.”. Nulla che mi aiutasse a capire dove fossi.
La casa sembrava abbandonata. Mi avvicinai alla porta di ingresso e la trovai aperta. La serratura era rotta. Entrai. C’erano polvere e ragnatele ovunque. Calcinacci ed assi di legno sul pavimento. Provai a salire le scale chiamando ad alta voce: “C’è nessuno?”. Mi rispondeva soltanto l’eco dei miei passi.
Arrivai al primo piano, in un ampio disimpegno. A sei metri da me c’era una bussola chiusa. Nella penombra dell’alba mi parve di scorgere un ombra, di là dal vetro.
“Ehilà!” chiamai.
Nessuna risposta.
Il mio piede destro urtò qualcosa sul pavimento. Era un paletto di ferro. Lo raccolsi e ne armai la mia mano destra mentre cominciavo ad avvicinarmi allo sconosciuto. Anch’ egli s’era armato di una mazza e mi  veniva incontro.
Man mano che mi avvicinavo cominciai a distinguerne nella penombra le fattezze. Era canuto, ed aveva incolte sia la chioma che la barba irsuta. Aveva un soprabito di pelle logoro. La faccia grinzosa e rossa, e rossi anche gli occhi, che apparivano terribili e feroci. Doveva  avere quasi ottanta anni.
Mi veniva incontro con passi lenti, brandendo la  mazza, come assetato del mio sangue.
Non riuscivo a fuggire, a tornare sui miei passi. Non riuscivo nemmeno a stare fermo. Nell’agitazione del momento continuavo a gridare frasi senza senso, per indurlo a fuggire o a posare la sua arma. Attraverso il vetro potevo vedere la sua bocca atteggiata alle urla, anche se, nella concitazione, non udivo la sua voce.
Ero ad un metro dalla porta. Lo vedevo chiaramente. Era una creatura infernale. Accelerai e vibrai una mazzata tremenda nel vetro. Egli fece altrettanto.
Inorridito guardai i cocci dello specchio sparsi sul pavimento.
Il primo raggio del mattino illuminava il silenzio.       
      

 

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